“Storie di questo tempo” è il sottotitolo di questa antologia di racconti sul rapporto dell’uomo con la propria epoca
È da poco uscita per Minimum Fax L’età della febbre, antologia di racconti di scrittori under 40. Questa da subito si pone nel solco de La qualità dell’aria, antologia del 2004, ma il rapporto tra le due non sembra essere di pacifica continuità.
La maggiore rivendicava di declinare le ansie sociali in uno stile forte e riconoscibile e, brevemente, alcuni dei tratti principali erano l’impegno degli scrittori chiamati in causa e un forte legame con la storia italiana, tematizzata e analizzata – basti: lasciare la luce a […]il fatuo e ridicolo capitalismo italiano […] le occasioni mancate e forse mai avute nel passaggio tra prima e seconda repubblica.
Cosa resta, cosa cambia?
Un mosaico di scelte stilistiche molto differenti tra loro è forse il tratto caratteristico dell’Età della febbre. Anzi, qui si conferma che la forma-racconto è quella in cui gli scrittori possono osare di più. Questa del resto è un caratteristica della crescente complessità del sistema letterario. Sempre più un calderone di poetiche diverse che spesso convivono orizzontalmente; apprezzabili nella loro diversità.
La storia è invece abolita senza eccezioni. Come peraltro è rivendicato dai curatori, Christian Raimo e Alessandro Gazoia: Il Novecento […] è lontanissimo. Resta l’assunzione di responsabilità degli scrittori, sebbene il punto di vista da cui viene guardato il mondo è profondamente diverso e concorre a creare l’inaspettata comunione di cui si parla nella prefazione.
I modi con cui l’uomo si misura con la realtà si spostano in una dimensione talora privata e talora insediata nell’immaginario; a volte le due possibilità si incontrano, come nel racconto di Carbé. O ancora spesso ricorre al perturbante, lo straniamento nelle ambientazioni più comuni, come la Roma ora tropicale ora cinese di Claudia Durastanti. Tuttavia capire le ragioni di questo spostamento è più che interessante.
Perché proprio oggi, 2015?
Ora, sarebbero discussioni che meritano un respiro più ampio, tuttavia non è un male di per sé abbozzare qualche spunto. Ne sono un esempio alcuni testi recentissimi.
Giglioli, nel suo “Stato di minorità” sostiene che se c’è un dato reso manifesto in questi anni è che la realtà esiste e io ne so qualcosa. Ne avverto tutto il peso, solo non riesco a farci granché, per non dire nulla, col dubbio semmai se non sia io a non esistere davvero, a non esistere cioè in modo significativo. Che io ci sia o non ci sia è del tutto ininfluente. Altri agiscono, altri decidono. Wall Street, Bruxelles, il rating, gli algoritmi. I terroristi, le intelligence, i grandi network.” Oppure, da un’altra angolazione – vai a capire se l’evento più influente dell’arco 2004-2015 sia la crisi con le sue conseguenze o la nascita dei social network – Andrea Inglese: Facebook è oggi la più palese conferma di questa colonizzazione dell’intimo a scopi commerciali. O ancora Mazzoni parla di un’umanità antitragica, contenta della relativa bolla di autonomia e di benessere concessa dal sistema, totalmente ripiegata sul privato e ormai disinteressata alla politica e alla storia (qui nella ricostruzione di Alessandro Romanello).
Certo, saccheggio da discorsi molto diversi, che meritano di essere letti nel proprio contesto di riferimento. Tuttavia si può sostenere ragionevolmente che un aspetto degno di interpretazione si trovi nel rapporto tra pubblico e privato. Il legame tra storia ed esistenza sembra spostarsi tutto nella dimensione privata, vedendo negato uno sbocco pubblico. Anche nelle prese di posizione pubbliche più radicali, come nei movimenti Occupy, i problemi sono in larga misura interni: la ricerca e l’invenzione di un nuovo rapporto sociale tra i partecipanti, base stessa di una qualsiasi prassi politica. Gli stessi rapporti che producono un valore economico immenso.
La conflittualità maggiore con la sintassi del proprio tempo, si ha nello spazio dei rapporti umani più intimi, la famiglia, la coppia, i gruppi minimi.
Quando la letteratura crea dei personaggi, con lo scopo programmatico di cogliere il presente, non rinuncia a misurarsi con la complessità di questi fenomeni. I racconti de L’età della febbre – che non possono essere visti in nessun modo come una sorta di manifesto – convergono in questo punto. Ne risulta un’idea dell’umano complessa e sfaccettata in cui certo emergono diversità fra gli autori, ma con alcuni punti di contatto importanti.
Il volume si apre con Quel sollievo di Latronico. Racconto di un’esistenza che procede attraverso una continua fuga da se stessa. Fuga che non consiste solo in uno spostamento, ma in una negazione di ciò che si era costruito in precedenza. Leonardo ha così una formazione precaria per la quale, quando scoprirà di avere l’AIDS, le vite parallele condotte fino ad allora troveranno un contatto e un cortocircuito. Interessante corrispettivo stilistico della vita del suo personaggio è dato dalle modalità di intreccio: i momenti di maggiore trasporto emotivo del lettore sono interrotti (e quindi negati) da continui flashback (il più forte, pag 18: Naturalmente stava piangendo. /Leonardo era nato a Livorno). Ne risulta un’assenza deliberata di emozioni, e per questo commovente.
Una fuga da sé e da una realtà oppressiva è alla base anche del racconto di Rossella Milone. Il punto di vista è quello di una madre di mezza età con dei figli adulti. Con i suoi occhi si guarda e si analizza la condizione umana che si presumerebbe propria di questi scrittori under 40, definita senza mezzi termini uno sfacelo. Ma a ben vedere il racconto testimonia un disagio generale, che non accetta differenze interne. Vittime ne sono infatti sia la madre, che i figli, che una terza figura che emergerà nel finale. E proprio questo sembra alludervi in modo piuttosto disincantato. Si è di fronte allo lotta contro un elemento misterioso e incomprensibile che nessun atto, seppur definitivo, può interrompere. Si crea così un vertiginoso spazio di sospensione dell’orrore.
La famiglia, qui tema essenziale insieme ad altri, sarà al centro di larga parte dei racconti successivi, costituendo uno dei luoghi privilegiati di analisi dei rapporti umani.
Con Zucco si inaugura questa centralità, in un racconto dalla trama piuttosto singolare. È la storia di un bambino che ha un collegamento diretto tra il proprio inconscio e il proprio intestino: le macchioline di cacca lasciate sul tessuto delle sue mutande creano i disegni della sua vita interiore. Testimoniano tutta la gamma delle sue emozioni; una biografia emotiva. Ma questa totale, quanto involontaria, sincerità apre una crisi in nucleo familiare di cui l’autore così come il suo personaggio annota man mano le minime variazioni. Famiglia che non è esente da una cattiveria mediocre: è molto bella, per esempio, la pagina in cui il padre dà fuoco all’orsetto del figlio. Una pagina tesa a dimostrare la difficoltà dell’assumersi la responsabilità delle proprie pulsioni meschine; prima l’uomo si vede come un mostro e poi, attraverso continue contraddizioni, conclude: colpa sua e di nessun altro, anche se proprio non era sua intenzione.
Un’altalena riassume molti dei comportamenti di tutte e tre le figure che qui si muovono. Il bambino stesso infatti finirà per proteggere dalla sua coscienza senza filtri i propri genitori utilizzando la loro stessa arma: la negazione.
La famiglia è al centro anche dei racconti di Violetta Bellocchio ed Emmanuela Carbé, molto diversi tra loro per scelte stilistiche e proposte, ma che in qualche modo si illuminano per contrasto.
Al centro del racconto della prima c’è la figura di un ragazzo trovato nel parcheggio dell’Ikea di Corsico e cresciuto da un genitore gay in un clima di forti ristrettezze economiche. Una figura che conduce un’esistenza votata alla clandestinità il cui fine a breve termine sembra essere quello della cancellazione di ogni traccia di sé. Figura che peraltro interagisce, senza per questo riuscire a stabilire un contatto, con un altro emblema di questo tempo: il professionista della cultura iperqualificato con cui si trova a dover condividere la casa e a “lavorare”, cioè cercare un lavoro. Qui si sente quanto sia forte, nonostante tutto, la speranza, ma la risoluzione di questa esistenza è demandata ad un sogno.
Emanuela Carbé invece si conferma capace di creare mondi che si reggono al confine tra la tragedia e il comico. Ci troviamo in una distopia ambientata in un futuro che sembra lontano e gioca a carte scoperte con le tecniche di Foster Wallace. L’ambiente è quello dell’università, in una sua versione parodica, i cui tratti sono la ridicola burocrazia; il ruolo residuale delle materie umanistiche, ridotte a gossip sulla vita degli autori; il controllo pervasivo sui dipendenti e il lavoro gratuito non così lontano.
Tuttavia, dopo aver dipinto per sommi capi questo mondo, fa scontrare la propria protagonista con l’impotenza di fronte al dolore. Un dolore che rende bambini e fa regredire, a cui si è incapaci di reagire. Di certo privato, la malattia della madre, ma che si scontra contro le strutture del mondo e vissuto come una colpa degna di un’ indagine. La protagonista si rifugia in uno scafandro, si chiude e si protegge; e si arrende. In un rapporto ironico con Arancia meccanica, la colonna sonora della sua resa sarà una canzone di Venditti. Momento certo tragicomico con cui però l’autrice prende distanza dal suo personaggio e sembra esprimere una visione più conflittuale. (E del resto non è la prima volta che per lei la musica diventa un contrappunto tragicomico, come qui)
Tra le due, ci sono il racconto di Chiara Valerio e il grapich novel di Manuele Fior. Chiara Valerio crea forse il personaggio più riuscito dell’antologia. Un mentitore al ribasso. Uno che colleziona bugie per sembrare peggiore di quello che è, così da poter controllare i propri difetti farli sparire o comunque dosare, nelle convinzione che cambiare e migliorare siano sinonimi. Tutto il racconto costituisce un’interrogazione sui concetti di vero e falso, che esprime una visione problematica del reale. Ma la stessa forza emerge nella sperimentazione stilistica sulla voce narrante, un monologo che tende a perdere il suo centro: dà l’impressione di un cambio di voce anche dove non c’è, poi arriva davvero, poi una storia nella storia: un caleidoscopio.
Il grapich novel di Fior, è invece una sorta di continuazione del suo ultimo L’intervista, una storia di fantascienza ambientata ad Udine, con al centro il personaggio rappresentato in copertina.
Claudia Durastanti invece crea un personaggio ostinatamente resistente: si muove con tanta facilità in una situazione sociale oppressiva fino alla trasfigurazione dell’ambiente e alla ribellione verso un corpo martoriato e spezzato che le impedisce di danzare. Non si arrende e trova un suo equilibrio nel diventare una spogliarellista, accettando – ma attivamente – il suo essere contronatura. Certo, un infortunio, una ribellione contro la propria volontà, è una di quelle cose del quotidiano che hanno il sapore di una crudeltà immotivata. Ma nel racconto questa crudeltà, che altrove forse viene chiamata ferocia, diventa tratto costitutivo del mondo e sembra al centro del paesaggio dei rapporti umani, innervando tutto. Il risultato per chi ne è in qualche modo esente – e qui sta la ribellione all’ordine naturale – è di diventare una di quelle palazzine che dall’alto sembrano pedoni che qualcuno ha dimenticato di ritirare dalla scacchiera, non hanno più un reame da difendere alle spalle ma non rinunciano ad una timida offensiva.
Una crudeltà gratuita, un mondo governato dalla stessa legge – e quindi massimamente terribile – è al centro anche del Casco verde di Sortino. Qui i ragazzini delle valli di un Abruzzo allucinato danno vita ad una distopia in cui si uccidono tutti i maggiori di sedici anni. Istituiscono una democrazia, parola non a caso usata poiché svuotata totalmente del suo reale valore, in cui l’uguaglianza è quella nell’omicidio. A questo male gratuito, inquietante – del quale forse le ragioni emergono negli slogan, con al centro la merce – Sortino contrappone l’amore. Ma non è una soluzione conciliatoria: da un lato è vero che all’impero di un male gratuito si contrappone l’amore umano, per quanto problematico e inusuale. Dall’altro questo amore è gravato da una mancanza. Si apre quindi tra questi due poli un’asimmetria che apre uno spazio da cui emerge la ricerca del senso – e del suo vuoto.
Vanni Santoni rilancia, e conferma, il proprio interesse verso la coralità, prendendo in prestito un personaggio dal suo Il muro di casse. Racconta del rapporto amoroso di due ragazze che sconfinano l’una nell’altra. Un amore che vive immerso nella difficoltà del proprio tempo : l’epoca del tempo infinito ormai non esiste più […] è molto vile, sai, fuggire dalla natura delle cose. Molto peggio che posticipare. L’occhio dello scrittore non indugia molto sui suoi personaggi, ma sembra piuttosto interessato al processo di crescita e di definizione del proprio sé attraverso l’altro. Non sono le famose due metà, ma due interi che creano la propria specificità nella definizione di sé attraverso il noi. I nomi alle cose li avevamo dati assieme; ciò che esisteva fuori di noi era in nostra funzione oppure vago e irrilevante. Un rapporto totale e fragile e per questo più vero e struggente.
Antonella Lattanzi invece prende spunto probabilmente da un fatto di cronaca, e riesce a creare un microcosmo. Si muove nel suo racconto una folla di personaggi dei quali documenta puntualmente le esistenze; finanche delle comparse, saltando continuamente e inaspettatamente da uno all’altro. È un’umanità varia e complessa, stretta tra vette di una tenerezza abbacinante e cattiverie quotidiane e insensate; capace allo stesso modo di una sincera empatia e azioni grottesche. Un groviglio di esistenze che appaiono tutte collegate l’una all’altra. Che lascia in bocca l’idea di una disordinata e umanissima vitalità. Non passa in secondo piano che qui si annidi un male, immotivato e insensibile, che appare incomprensibile e tutto interno all’autrice. Una deformazione che si presenta con terribile, quanto preannunciata, puntualità.
Non stupisce che questo racconto chiuda il volume. Con L’età della febbre siamo di fronte ad una letteratura che non teme di pensare. Pensare al rapporto tra l’uomo e la propria epoca, per esempio. Ma forse la febbre stessa del titolo è usata con il suo carico di ambiguità: da un lato è una malattia, dall’altro uno stato di eccitazione. Ed infatti i personaggi di cui leggiamo le storie non sono meno capaci di amare, di desiderare, di sentire, di patire, di essere vivi. È con disincanto e lucidità che si fa questa concessione, non tacendone al lettore i lati più gretti.
Certo dare un’idea del proprio tempo è una prassi che dall’inizio si dà allo scacco, ma perlomeno qui c’è un’aria piuttosto familiare che contribuisce a renderlo un gran libro.
L’età della febbre, a cura di Christian Raimo e Alessandro Gazoia (minimumfax, pp. 329, 16€)
Immagine: shibboleth di wonderferret