L’età fragile ai tempi del Coronavirus

In Weekend

Chiusa la Lombardia e altre 14 province, raccomandazioni pressanti a tutti noi, a cominciare dai più anziani. Cosa significa esserlo oggi, nel neoliberismo e durante l’epidemia del Coronavirus e cosa questa emergenza potrebbe lasciarci…

Per la prima volta nella mia vita mi capita di far parte di una quota di popolazione definita “più fragile” (per poco, ma sono over 65) del resto del tessuto collettivo. E in una contingenza drammatica come quella del coronavirus, che ha portato, cosa mai successa prima, all’isolamento dell’intera Lombardia e di altre 14 province dal resto d’Italia e del mondo, al blocco di scuole e mobilità, perfino a un mese di stop ai matrimoni. E tale fragilità deve convivere con una società contemporanea che, nella sua maggioranza, se ne frega delle difficoltà altrui. Perché questo è l’esito del prevalere di quell’ideologia del “You want to do it? Just do it!” che nell’era iperliberista ha contagiato ideologicamente tutti, destra e sinistra, giovani e meno, istruiti e meno, urbanizzati e meno, e da storicamente americana è diventata da decenni globale.

Tutti hanno i mezzi, gli strumenti di partenza per affermarsi, a scuola prima nella vita professionale e umana poi, forse non proprio gli stessi mezzi (economici, sociali, culturali, biologici) ma comunque sufficienti a raggiungere i propri obiettivi. Chi non ci riesce, chi viene bocciato al liceo o licenziato dalla sua azienda, chi non ha (o non ha più) i mezzi, anche fisici, magari proprio a causa dell’età, per arrivare alla sua meta, deve solo rimproverare se stesso. Non ne è stato capace, non l’ha voluto fino in fondo, non ci ha tenuto abbastanza

Le classiche – secondo molti vecchie – spiegazioni socio-culturali, i famosi deficit di partenza (ambiente, reddito, cultura) a lungo considerati elementi importanti (non esclusivi certo) per spiegare le difficoltà e i ritardi di molti, sono ormai ritenute motivazioni obsolete, giustificazioni legate a passate ideologie, non abbastanza moderne. In Cina, negli Usa, in Italia, nel resto d’Europa. Poco importa se al governo c’è il centrodestra o il centrosinistra, sovranisti o macronisti, lib-lab o socialdemocratici. Il fragile è fragile in sé, è colpa sua, non merita più che tanto il sostegno degli altri, anzi spesso gli toccano solo severi rimbrotti perché si convinca a cambiare atteggiamento. Certo, in settori meno spietati c’è un occhio di riguardo a particolari fragilità (migrazioni, povertà, disagio estremo), o a condizioni di svantaggio oggettive, come la disabilità. Ma nel complesso l’idea è che soccorrere chi resta indietro sia il più delle volte un po’ una perdita di tempo. Quanti genitori abbiamo sentito dire, e a volte purtroppo anche studenti: “Forse sposto mio figlio da quella classe perché ci sono tanti ragazzini figli di stranieri, che rallentano lo studio perché sono indietro, non sanno la lingua e si perde un sacco di tempo”?

Ora, il Coronavirus, non certo benvenuto in assoluto ma forse per questo un po’ sì, ha costretto tutti a occuparsi di una fragilità sociale molto estesa e mi verrebbe da dire, ironicamente, interclassista. L’età avanzata. Non voglio fare paragoni macabri, anche se i decessi in Italia e nel mondo sono parecchi, ma funziona un po’ come la “livella” di Totò, che come è noto, insieme alla nascita, è l’unica cosa che davvero ogni membro dell’umanità condivide con tutti gli altri. Siamo stati obbligati a cambiare radicalmente la nostra esistenza, sul piano psicologico, materiale, comportamentale, culturale, per tutelare in generale tutti , ma prima di tutto la quota più fragile di questo Paese. Che poi è quella più attaccabile dal virus, e che ne patisce le conseguenze più gravi, in qualche caso purtroppo definitive. Al centro di ogni discorso, ragionamento, provvedimento, governativo e non, compresi gli ultimi più radicali, c’è in primo luogo la cura di migliaia, e la sopravvivenza di centinaia di anziani e anziane. Diciamolo, il vocabolo, dei vecchi. Che, a parte il valore non indifferente di essere elettori e spesso preziosi nonni/ nonne, per il resto, alla società, singolarmente e collettivamente intesa, appaiono generalmente più un peso che una risorsa. Lo dimostra, tra i tanti esempi possibili, un fatto verificabile da ciascuno di noi al momento in cui va in pensione: quasi mai chi ti ha appena congedato pensa neanche lontanamente di utilizzare le tue competenze, accumulate spesso in decenni, per una qualche forma di training o sostegno, che magari sarebbe anche non retribuito, ai nuovi soggetti che entrano nell’azienda dove tu sei stato. 

Come tanti, per passare utilmente e intelligentemente il mio tanto tempo libero, usando quello che ho imparato anche negli anni di lavoro, ho scelto il volontariato, finché una felice contingenza mi ha consentito anche di riutilizzare le tante cose viste, lette e studiate in una prospettiva diversa (da giornalista di spettacoli a insegnante di storia del cinema). Ma se allarghiamo il discorso dai nostri casi singoli all’insieme della società, nulla o quasi c’è di vagamente ragionato, o tanto meno organizzato, in questa direzione: la maggioranza di chi smette di lavorare fondamentalmente fa il nonno o guarda la televisione, i più aggiornati stanno su Internet, e spesso pure con esiti infausti.         

Dunque, sia pure come vittime, gli anziani/e hanno riconquistato una loro centralità, credo provvisoria, nel consesso sociale. Una centralità anche pesante, per lo Stato e per tutti in termini economici, nelle singole vicende familiari in un senso psicologico e concreto, di aiuto materiale, di preoccupazione.

Mi domando anche se questa ripresa di ruolo e d’importanza, sia pure in un senso sostanzialmente passivo, potrà, a emergenza finita, tradursi anche in una qualche positiva riconsiderazione generale, in una qualche forma di ricollocazione del mondo agée nell’organizzazione collettiva, intesa in senso socio-economico, relazionale, culturale. Oltre che familiare. Speriamo.

Vorrei allontanare da me, perché davvero non è questo (ho due figli tra i 25 e i 30 anni e la cosa mi sta massimamente a cuore) l’idea che non mi renda conto di come oggi, nella società (italiana in primo luogo) ci sia prima di tutto un drammatico deficit di adeguato utilizzo delle competenze e delle energie della fascia giovane, quella uscita da scuole e università, della popolazione: è peraltro questo uno dei motivi che hanno spinto anche i miei figli a scegliere, almeno per ora, di cercare all’estero il modo migliore per spendere le proprie competenze. In sistemi che per certi versi, in effetti, offrono loro possibilità in più, anche se pagate a caro prezzo, in tutti i sensi. La sensazione prevalente è quella che l’assoluta irrazionalità (e ingiustizia sociale, ma quello è un altro, ulteriore discorso) dell’attuale sistema socio-economico, tutto sbilanciato sul profitto (da quello individuale a quello multinazionale), e sul peggiore, meno controllabile dei profitti, quello finanziario pieno di zone grigie per non dire di peggio, stia riuscendo nella forse perfino difficile impresa di sprecare sia la sua popolazione giovane che quella anziana. Cancellando millenni di storia umana piena di senatori canuti e saggi e di condottieri energetici, a volte quasi adolescenti.

Tento di sdrammatizzare: oggi, chi se li filerebbe (come si dice per sembrare giovani e pop) Cicerone e Alessandro Magno, a meno che non fossero il proprietario di un impero multimediale e un broker d’assalto di una banca d’affari londinese? Ma qualcosa hanno fatto anche loro…

In apertura Quartet di Dustin Hoffman

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