Caro Babbo Natale, ti scrive il postino

In Weekend

Un postino scrive a Babbo Natale: e gli chiede di conservare il cuore antico dell’Italia che vede ogni giorno e di buttare malgoverno, rassegnazione e malaffare

Caro Babbo Natale

Si, sono io, il portalettere. Curioso che a scriverti sia quello che le lettere le porta, quello che da molti anni prende buste scritte con la grafia incerta dei bambini e immagina i desideri che ti consegnano, quel tal gioco, quella bambola , ma proprio quella perché sono stata brava…

Stavolta invece ti scrivo io perché ho da dirti sull’Italia che vedo tutti giorni, suonando campanelli, salendo scale, consegnando lettere, avvisi e multe, percorrendo in scooter strade di campagna, di città, con negli occhi il mare o una collina o solo le buche per terra e i panni stesi.

La prima cosa che ti chiedo, babbo Natale, è una cosa da salvare ed è il cuore antico dell’Italia: io, che giro tanto, so che c’è e che, forse anche senza saperlo o volerlo, resiste al tutto eguale, all’omologato, all’indifferenziato. Per farti capire cosa intendo vorrei portarti con me a Bari Vecchia o a Genova nei dintorni del porto: mi capita persino di chiedermi se è così per davvero, insomma ci fate o ci siete voi che abitate qui, tanto forte è l’identità che si respira in quei posti. E ti farei vedere anche Pietralata a Roma, che è riuscita a rimanere se stessa, o ti porterei in Calabria a Lungro dove si parla ancora l’albanese o in quel paese del Molise, Colletorto si chiama, dove puoi finire dritto in una processione che ti sembra di essere tornato, con una bizzarra macchina del tempo, agli anni cinquanta. Sono i posti in cui ti chiedi: ma quella che vogliamo (o che ci fanno) leggere solo come arretratezza non sarà invece diversità? E davanti a noi, nel futuro, c’è più civiltà o c’è invece la perdita? Ti sembrerà strano ma se dovessi dirti cosa vorrei buttare con l’anno vecchio ti direi proprio questo: l’inautentico, il posticcio, la logica da centro commerciale, insomma. Preferisco, per paradosso, un luogo come lo Zen di Palermo – selvaggio, tutti urlano, respiri la violenza diffusa, i maschi comandano e le donne stanno a casa – perché è vero, è quello che è e non finge. Vorrei portarti a Napoli, per esempio, dove ogni stereotipo che hai in testa su quella città si avvera e incontri veramente Pulcinella e il bello e il brutto è che quando esci la mattina ti può capitare veramente di tutto.

L’hai capito Babbo Natale, io con questo lavoro un po’ mi sono innamorato: del paesaggio, di tutta la bellezza che abbiamo, del fatto che giri l’angolo e cambia persino la lingua, e c’è da scoprire, da capire, da assaggiare, c’è la meraviglia del nostro saper vivere…Però ho capito che questa diversità è anche il problema di questo paese, dove a distanza di qualche chilometro, tra Ascoli e Pesaro metti, la gente si pensa come in due mondi diversi. Quando giro con il mio scooter, capisco subito se un posto è bene amministrato, se è curato o se è lasciato andare, e si è imbarbarito o se è preda della criminalità organizzata. E tanti posti ti lasciano l’amaro in bocca: Taranto avvelenata o l’irreale silenzio di San Luca, in Calabria. Ecco l’altra cosa che butterei via: il malaffare, la cattiva politica, la cattiva amministrazione. Penso con dolore a quanto insensatezza c’è nel consegnare tutta questa bellezza, questa cultura, questi capolavori d’arte a chi non ne ha cura.

E poi un’ultima cosa che riguarda i giovani: io non ne vedo tanti, quasi solo quelli che se ne stanno a casa, nel Sulcis per esempio perché il lavoro non c’è, ma so che sono le prime vittime di un paese senza ricambio, che si muove per logiche di appartenenza, per familismo, che non premia chi se lo merita, in cui il meccanismo è inceppato. Però ogni tanto incontro delle storie, storie di giovani che sono tornati alle loro case, ai loro paesi, alla terra. Come quelli che vicino a Rimini, sull’Appenino, hanno messo in piedi una piccola produzione di zafferano. Ecco Babbo Natale cosa ti chiedo di buttare via con l’anno che se ne va: la rassegnazione. Vedi tu se puoi dare una mano.

 

 

Ps, Questa lettera è frutto di una lunga conversazione con Angelo Ferracuti, ex postino e scrittore del lavoro, che i portalettere e l’Italia li ha raccontati – benissimo – nel libro Andare camminare lavorare, sei mesi di viaggio su e giù per lo stivale con, ci ha detto, «la fortuna di avere per guida e filtro questa incredibile sonda nella vita della gente che sono i postini». Un viaggio su committenza – le Poste Italiane – dal quale ha tratto l’unica, non convenzionale, possibile conclusione in tempi in cui servirebbero meno certezze, meno stereotipi e più domande: che l’affresco è impossibile e ingannevole , che ogni luogo è se stesso in quel momento e sotto quel particolare sguardo e che è ciò che, onestamente, si può restituire.

Immagine di copertina: Poor Santa Klaus di D. Reichardt

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