Tre romanzi chiave ricostruiscono la vita, i corpi, le contraddizioni della gioventù omosessuale tedesca, tra paure e desideri. A Weimar, tra le due guerre, c’è stato un tempo in cui la libertà è stata vicina.
C’è un lasso di tempo, una piega della storia che sembra aver permesso ad una parte di umanità, abituata ad essere sempre messa da parte, di viversi la libertà di esistere.
Nella Germania di Weimar, dal 1919 al 1933, quindi tra la prima e la seconda tragedia mondiale, sembra che i sotterranei dell’omosessualità abbiano avuto qualche spiraglio di luce.
Non si può parlare di vera e propria libertà, il decreto 175 (con il suo rimpiazzo decreto 297 – mai varato) ancora era in vigore: gli atti sessuali contro natura che sono consumati tra due uomini o tra uomini e animali sono soggetti a prigionia, con la perdita dei diritti civili.
Quindi, più che di libertà, si dovrebbe parlare di una tacita tolleranza, una disattenzione aggravata dalla profonda crisi economica che attraversava la nazione tedesca. Sostanzialmente, c’erano cose più importanti a cui pensare che a due uomini che si baciavano o si incontravano nei bagni pubblici.
Risale proprio a quegli anni quello che è considerato il primo film a tematica omosessuale della storia: Anders als die Andern (in italiano Diversi dagli altri), con la regia di Richard Oswald e la partecipazione alla sceneggiatura di Magnus Hirschfeld, quello stesso Hirschfeld che fu padre della teoria del terzo sesso e che nel 1919, sempre a Berlino, fondò il famoso Institut für Sexualwissenschaf, l’Istituto per la ricerca sessuale.
È in questo tipo di atmosfera che un paladino della letteratura omosessuale, Christopher Isherwood, nel suo Addio a Berlino, ci racconta di una Berlino pullulante di erotismo, tinteggiata di colori non più nascosti in un sottosuolo pieno di vita e di giovani uomini pronti a nuove esperienze.
Otto e Peter sono fisicità e violenza, con le spalle superbe e un torace magnifico del primo e le vene che sporgono dalle tempie del secondo. Sono la quintessenza della sensualità che si incarna negli opposti, nella superficialità di uno che incontra la profondità dell’altro, nella prestanza fisica che si scontra con la bruttezza, il nervosismo e la magrezza. Isherwood dipinge perfettamente con il gioco degli opposti quella che era la dimensione giovanile nella Berlino weimariana, opposti che non tendono ad annullare, ma a completare, a riassumere la necessità della giovinezza, la necessità di abbandonare e di dimenticare gli orrori della guerra unita a quella, invece, di consapevolezza.
Isherwood vive la sua esperienza berlinese con una soddisfazione presuntuosa, con la tendenza a sottolineare più volte la differenza con la sua nativa Inghilterra che invece stringeva ancora troppe catene contro gli omosessuali.
L’aria che si respirava in quegli anni di instabilità economica e di tripudio di liberazione, di follia dovuta ai disturbi di stress post-traumatico e di corpi che si denudano per riempirsi di vita è stata soggetto di altri due testi significativi: il Georg di Siegfried Kracauer e La pia danza di Klaus Mann.
Kracauer, saggista e filosofo, nel suo romanzo racconta la storia di un uomo profondamente incerto, inquieto, in crisi come la società in cui viveva. Questa instabilità si concretizza nell’adorazione per un giovane snello e biondo di nome Fred. Mentre le descrizioni fisiche del ragazzo abbondano, fino a diventare quasi ossessive, ridondanti, meticolose, quelle del protagonista Georg scarseggiano, quasi a voler evidenziare la dimensione incorporea e volubile di un uomo inconsistente.
Klaus era figlio del più conosciuto Thomas. Già intorno a quest’ultimo giravano voci di una sua presunta e nascosta omosessualità che con ogni probabilità era più una bisessualità: nelle sue opere, infatti, l’elemento omoerotico affiora costantemente. Se il padre tendeva a celarsi, raccontandosi tra le righe e le parole dei suoi scritti, il figlio viveva più apertamente il suo essere gay, vita che riversava senza censura e senza filtri nella sua stessa scrittura.
Ne La pia danza i personaggi sono Andreas e Niels. Andreas è un personaggio decadente, descritto in continuazione con il pallore che lo contraddistingue, con il suo “stare in piedi, magro, con le braccia lungo il corpo, magro e ordinato”. Attraverso i suoi occhi viene anche data l’immagine di un gruppo di suoi coetanei, immagine che tenta di riassumere la necessità di comporre un modello a cui affidarsi per scovare i tratti dell’omosessualità:
“vide come intorno alle loro bocche vi fossero già, invisibili a un primo sguardo, delle piccole rughe, e comprese che erano state le avventure precoci, l’ansia affrettata, le precipitose esperienze a scavarle. Gli parve che tutti loro, in fondo estranei al mondo, in fondo addirittura bambini, si fossero gettati troppo presto, come nessun’altra generazione aveva fatto prima”.
Come nessun’altra generazione aveva fatto prima: eccola la gioventù di Weimar.
Andreas e Niels, Otto e Peter, Fred e Georg si appoggiano su un equilibrio fatto di dualismi, come se fossero necessarie per la creazione di una coppia omosessuale una componente vecchia, fatta di storia, di freddezza, di razionalità (incarnata nei personaggi di Andreas, Peter, Georg) ed una componente giovane, intrisa di vitalità, di sensualità, di erotismo (in Niels, Otto, Fred). Due componenti, queste, che lottano e si abbracciano, si dividono e si riappacificano, annaspando in una costante paura dell’abbandono, sul timore di una lontananza che si può rivelare radicale e definitiva. Effettivamente questo accadrà negli epiloghi di tutti e tre i testi: non stupisce che chi provoca l’abbandono sia proprio quella parte giovane che lascia il vecchio nella sua disperazione, con la necessità di abbandonare la tristezza di un tempo che è stato per far spazio ad una nuova vita.
Ciò che desta maggior interesse è la tranquillità con cui i tre autori hanno raccontato una vita illegale, ai margini di una civiltà che stava vivendo un momento di seria instabilità ma che allo stesso tempo esplodeva della necessità di sentirsi libera, viva, rinnovata dopo gli orrori di una guerra durata più di quattro anni. A posteriori, quella tranquillità ci appare a noi ingenua, tragica, se pensiamo all’orrore ancora più terribile che doveva ancora presentarsi. A distanza di quasi cento anni, la letteratura ci insegna ancora una volta quanto possiamo trovare familiare e vicino qualcosa di così lontano, qualcosa che può e che deve necessariamente risorgere.
Addio a Berlino è disponibile in italiano, pubblicato da Adelphi, La pia danza è stato tradotto nel 1983 e mai più ripubblicato, Georg nei Supercoralli Einaudi del 1997.