Togliere, togliere e togliere per rendere il testo pulito e denso. Rileggere Hemingway per trovare sempre valida quella lezione
Lo acquistai all’edicola sotto casa: 350 lire, pochi soldi anche per quei tempi (era il 1965), anche per me che avevo 14 anni. Era l’Oscar Mondadori numero 1, un’autentica rivoluzione nell’editoria, e aveva in copertina il volto stilizzato di Rock Hudson: un ossimoro, un gay che impersonava il protagonista macho di un romanzo sulla guerra scritto dell’autore più macho di quei tempi, e non solo.
Ma tant’è, di Ernest Hemingway non sapevo e non avevo letto nulla. Di Rock Hudson e delle sue preferenze sessuali, poi, neanche parlarne.
Serbavo però un ricordo del film (protagonista, appunto, Rock Hudson), che avevo visto insieme ai miei genitori diversi anni prima. O meglio, non del film ma della scena alla quale mia madre mi aveva sottratto conducendomi fuori dalla sala: un ospedale, una donna, molto dolore. Via, via, la bambina non deve vedere, non deve sapere.
Addio alle armi. Perché lo acquistai? Per sentirmi grande, credo (a scuola se ne parlava come di un romanzo proibito), per sapere ciò di cui ero stata tenuta all’oscuro tanto tempo prima, forse. Ma la domanda vera è: perché mi piacque tanto, al punto che mi spinse a leggere in sequenza l’opera omnia di Hemingway?
Non lo so, non ricordo. E a rileggerlo oggi mi chiedo stupita come riuscirono quelle pagine così dure e dolorose, sia pur inframmezzate da una delle più belle storie d’amore (e di morte) mai raccontate, a catturare la liceale ancora un po’ infantile che ero.
Può darsi che me la racconti travisando la realtà, adattandola all’adulta che sono poi diventata anche grazie alla lettura di Hemingway, ma credo che a conquistarmi sia stata la scrittura. Pulita, chiara, potente. Che andava dritta al cuore e al cervello. Con – poche – parole giuste.
Così avrei voluto scrivere io. Come lui avrei voluto descrivere luoghi e sentimenti: il fango, il sangue, i rumori, gli odori, la paura, l’amicizia, l’amore. E il dolore: quel finale così tragico risolto in poche righe che ti lasciano il vuoto dentro, lo stesso vuoto che annichilisce Henry.
Togliere, togliere, togliere, era la lezione di Hemingway, come imparai leggendolo e leggendo su di lui. Lavorare duramente, tenacemente sulle parole, scarnificare il testo fino a renderlo puro e denso. Ricco, a dispetto dell’apparente semplicità.
Chi, amando Hemingway, non ha provato a emularlo? Tentativi penosi e inutili. Perché chi mai avrebbe riscritto per quarantasette volte il finale di un romanzo?
Lui lo fece: per quarantasette volte provò a descrivere la morte per parto di Catherine Barkley e la disperazione di Frederic Henry. Tutti finali che prevedono la morte di Catherine (come suggeriva Fernanda Pivano, traduttrice dell’opera, il titolo A farwell to arms può significare, oltre che addio alle armi anche, per traslato, addio alle braccia, agli abbracci). Ma molto diversi fra loro. In alcuni il bambino vive. In altri c’è il funerale di Catherine. Ci sono i finali con “il mattino dopo”. E altri addirittura con la vita dopo. Fino all’ultimo, il più scarno di parole ma, anche per questo, inarrivabile.
Se rileggerete il romanzo nell’ultima, preziosa edizione dell’Oscar Mondadori, li troverete tutti. Cercateli, alla fine del romanzo. E poi rileggetevi il finale definitivo. E godete dell’immensità di questo scrittore.
PS Per pura casualità, quest’estate ho letto, o come nel caso di Addio alle armi riletto, tre romanzi ambientati durante la prima guerra mondiale. Gli altri due sono I doni della vita, di Irène Némiroskj (non fra i suoi migliori), e Ci rivediamo lassù, di Pierre Lemaître (un’autentica rivelazione). Tre romanzi molto diversi fra loro, tre fari accesi sulla follia di un conflitto che fece milioni di vittime e pose le basi per la seguente e ancora più atroce guerra mondiale.
Immagine di copertina: Thomas Hawk,
Hemingway