Rileggere oggi il libro di Alba De Céspedes fa affiorare rabbia e pietas per queste vite femminili cosi invisibili, ma anche la meraviglia per come la scrittrice è capace di descrivere l’ambivalenza tra il dentro e il fuori, tra la casa e il mondo, così anticipatrice e moderna
Certo, tutti hanno sofferto durante il lungo periodo di pandemia che abbiamo attraversato, ma molto e forse di più le donne, che oltre al confinamento nelle case, comune a tutti, hanno visto rinverdirsi i fasti del loro ruolo prioritario di cura, della loro domesticità. E allora mi è tornato alla mente e ho recuperato dallo scaffale della libreria Quaderno proibito di Alba de Céspedes, pubblicato nel 1952.
Siamo all’inizio degli anni Cinquanta, in un’Italia immiserita dalla guerra e dalla difficile ricostruzione. È una donna della piccola borghesia romana quella che si racconta, chiusa nei suo affetti domestici, ma anche – per necessità economica – con un impiego fuori casa. Moglie, madre, impiegata.
La protagonista, Valeria, riassume in sé l’incontro e anche lo scontro di due correnti che iniziano a rendersi visibili in quegli anni: da un lato il grande fiume della domestication delle donne in cui domina incontrastato il privato, la famiglia, i figli, il lavoro domestico – una sorta di hortus conclusus in cui tutto è considerato naturale, dovuto, in cui il lavoro di cura è invisibile – e dall’altro lato, il rivolo iniziale, l’introdursi di una percorribile strada alternativa, che vede la storia delle donne iniziare a diventare una storia pubblica oltre che privata.
Non è l’orgoglio dell’indipendenza ad essere qui mostrato, ma piuttosto la percezione di un’innovazione che si sente ancora estranea, quasi solo imposta dalla necessità economica e dall’inadeguatezza del marito, che da solo avrebbe dovuto dare una vita dignitosa alla famiglia, come era usuale nella borghesia e nella piccola borghesia. Non solo: il lavoro fuori casa è percepito da chi sta intorno – conoscenti, amiche – come un peso insostenibile per il soggetto che lo fa e una vergogna per chi lo consente.
Non per tutte le donne è così: nell’Italia di quegli anni le donne povere lavorano moltissimo. Una visione quasi drammatica, di bambine che hanno cominciato a lavorare prestissimo, a 6/7/10/13 anni. Che non hanno potuto andare a scuola, anche se lo desideravano, perché non c’era la scuola dell’obbligo e perché c’era troppa povertà per consentire persino le elementari o perché veniva privilegiato il fratello, il maschio. Che poi sono riuscite a fare il passaggio nel lavoro fuori casa, cambiando mille lavori, senza nessuna protezione e senza nessun diritto. Ma nelle loro testimonianze si coglie un elemento non solo di necessità, non solo di autonomia, ma anche di libertà in quel voler andar “fuori”, tra gli altri, a esserci nel mondo.
Questa consapevolezza non appartiene alla protagonista di Quaderno proibito: c’è piuttosto il senso di colpa per aver tradito un destino comune, la percezione della necessità, non della possibile libertà.
Dunque negli anni ’50 e ’60, vite di donne che procedono parallelamente. C’è qualcosa che però le accomuna: il desiderio spasmodico di capire di più. Il “fatto casuale” che dà inizio al libro della De Céspedes non è affatto casuale. Il quaderno nero che Valeria vede in vetrina dal tabaccaio è lì per lei, per consentirle una ricerca di sé altrimenti impossibile nelle reti della vita quotidiana.
Quel quaderno è una prefigurazione del tempo per sé, che non è tempo libero, è il tempo dell’attenzione di sé a sé, della presenza di sé a sé, e nello stesso tempo del ritrovare il senso della propria vita, dell’attraversare la propria esperienza, se per esperienza intendiamo il rapporto tra vita quotidiana e ciò che sedimenta e viene incorporato nell’autobiografia. Per Valeria esistono le basi materiali (il lavoro fuori casa), ma sono troppo fragili e troppo individuali e non basteranno. Il quaderno – che la farà rivelare a stessa e che lei persino incolperà per averle tolto la beatitudine dell’inconsapevolezza – servirà a farle capire la sua posizione .
Ma ci vorranno vent’anni ancora prima che la doppia presenza delle donne sia da loro rivendicata e comunque socialmente accettata. Ancora tutti gli anni ’60 saranno il decennio di formazione della figura sociale della casalinga, che coinvolgerà, con il miracolo economico anche donne di classi più povere.
Infatti, proprio alla fine del decennio – e nonostante la presenza pubblica delle ragazze nel ’68 e la loro rivolta- c’è un documento rivelatore della concettualizzazione della residualità delle donne: un segmento della sentenza del 1969 con cui la Corte costituzionale difese la disparità di trattamento pensionistico tra uomini e donne, un documento che simbolizza il culmine di questa fase e di questa concezione: “L’attitudine al lavoro, in linea di massima, viene meno prima nella donna che nell’uomo, perché questa ha meno resistenza fisica e, d’altro canto, è opportuno che la lavoratrice torni ad accudire esclusivamente la famiglia, dato che occorre limitare nel tempo il periodo di distrazione dalle cure domestiche”. Da qui siamo partite, sessant’anni fa. La cura attribuita specificatamente alle donne, il lavoro per il mercato come appendice ‘fastidiosa’.
E il libro della De Céspedes entra nelle pieghe di questo conflitto che appare quasi insanabile. Tra l’amore e la cura di sé e l’amore e la cura degli altri. Valeria non riesce a far prevalere l’amore di sé o comunque a farlo convivere con l’amore e la cura per gli altri. Il quaderno proibito sarà bruciato. E lo sprazzo di futuro che quel quaderno rappresentava almeno come consapevolezza di sé verrà affidato alla figlia, non a se stessa, che lo brucerà. E si rinchiuderà nel gelo, con un’immagine spietata. “Questa sarà l’ultima pagina: in quelle seguenti non scriverò e le mie giornate future saranno, come quelle pagine, bianche, lisce, fredde. Fredda sarà la grande pietra bianca sulla quale alla fine tornerò a chiamarmi Valeria”. Non moglie, non mamma, non nonna, solo Valeria.
A rileggere ora questo libro – ma questo è anche il punto di vista dell’autrice, emerso già nel primo romanzo di grande successo, Nessuno torna indietro, del 1939 e poi anche nel successivo, Dalla parte di lei, del 1949 – i sentimenti che affiorano sono di rabbia per tanta intelligenza sprecata, per queste vite all’apparenza così tranquille, in realtà così dolorose, così invisibili, ma anche una sorta di nodo alla gola, di pietas profonda.
E soprattutto la meraviglia per la capacità di De Céspedes di entrare nelle pieghe di questa sofferenza, di questa ambivalenza così moderna e anticipatrice, che finisce nella sconfitta, ma lancia un messaggio forte alle donne di quel periodo buio e chiuso. Come se il quaderno invece di essere bruciato fosse lanciato in una bottiglia e navigasse per il mare aperto della consapevolezza.
È cambiato tutto ora: le donne sono più istruite, più qualificate degli uomini, hanno imposto riforme e leggi, ma sempre con una grande fatica, come se il passato pesasse ancora molto. E il lockdown è venuto a ricordarcelo. Della lunga strada che abbiamo fatto, ma anche di tutte le insidie che ancora rimangono. Ma una cosa l’abbiamo imparata: che non distruggeremo il quaderno proibito perché non accetteremo più il silenzio e la rassegnazione. E l’invisibilità.
In apertura foto di Martino Pietropoli /unsplash