Ora che è al cinema il film di Greta Gerwig, è ora di riprendere in mano un libro cult per tante donne. Due riletture assai differenti mostrano quanto ancora le Piccole Donne possono dirci
Elogio della differenza femminile
C’è stato un momento della mia vita, fra gli otto e i nove anni, in cui ero sicura che da grande avrei fatto la scrittrice. La colpa era, come spesso accade, di Jo March. Per il Natale del 1996 scrissi una pièce da mettere in scena con le mie amiche; era, ovviamente, ricalcata sulla trama di Piccole donne (in questi giorni al cinema, qui la recensione di Marina Visentin), ma visto che le mie compagne di classe non l’avevano mai letto, rubai a Louisa May Alcott il merito dell’opera e pretesi il ruolo della secondogenita. A partire da quell’amore fortissimo e precoce, Piccole donne entrò di prepotenza sul podio delle opere dell’infanzia, insieme a Tom Sawyer, Ascolta il mio cuore, Matilde e il libro delle Spice Girls. Era un romanzo che parlava di ragazze, di formazione, di crescita, di amicizia e sorellanza, del desiderio di diventare ciò che si è, e, alla fine, anche di amore. Il tutto sapientemente amalgamato da abiti eleganti in popeline, cuffiette di lana, serate passate a cantare insieme davanti a un pianoforte, limette e altre cose che nella vita non avrei mai avuto occasione di conoscere. Era, soprattutto, un universo in cui gli uomini avevano una funzione accessoria, se ne stavano sullo sfondo come di solito accade ai personaggi femminili, erano più un oggetto del pensiero (il padre lontano, le fantasie sugli amori futuri) che una presenza reale. Anche l’ambitissimo Laurie, in fondo, è poco più di una figurina nelle mani delle quattro sorelle. Nessun principe accorreva in aiuto delle quattro ragazze, nessun deus ex machina risollevava le loro sorti, non c’era mai nessun uomo da ringraziare nell’universo femminile costruito da una delle prime autrici che, a tutti gli effetti, possiamo definire consapevolmente femminista.
Nel 1996, quando non si parlava ancora di bambine ribelli e il femminismo per me era uno solo uno dei tanti “-ismi” che popolavano il complicatissimo mondo degli adulti, leggere della vita di quattro sorelle che vivevano senza un uomo in casa, che si legittimavano le proprie aspirazioni e rincorrevano i propri sogni, che vivevano per l’arte, la musica e la scrittura, mi regalava un piacere sfrenato, mi apriva orizzonti di possibilità che neanche la fantasia di Jules Verne aveva saputo aprire (a girare il mondo e a viaggiare verso al centro della Terra, infatti, erano sempre uomini). Per tantissimi anni ho conservato Piccole donne nella bolla degli “intoccabili dell’infanzia”. Non l’ho mai ripreso in mano, per la paura di rimanere delusa dalla mia adorata Jo March.
Ma i miti dell’infanzia (e non solo dell’infanzia) in fondo sono fatti apposta per essere messi in discussione. A trentadue anni ho riletto Piccole donne e, come temevo, la prima reazione è stata di delusione. Piccole donne è un romanzo del 1868, e gli anni trascorsi si sentono tutti. Lo stile è lezioso, sciattamente manieristico, impostato, ma intervallato da elementi lessicali del linguaggio comune che stridono con il tono generale. Iperdescrittivo al limite della pedanteria, è davvero un libro per ragazzine, il veicolo ideale per i continui insegnamenti moraleggianti che serpeggiano lungo tutto il romanzo. Le protagoniste sono ossessionate dall’imperativo a “diventare più buone” e si pone costantemente l’accento sul valore cristiano della rinuncia: dalla rinuncia alla colazione che viene donata ai più bisognosi, a quella dei bei capelli di Jo venduti per aiutare la madre, fino alla rinuncia più amara (no, dolceamara) di tutte, in Piccole donne crescono, quando Jo si adegua all’amore un po’ paternalistico di Baer e lascia da parte le ambizioni da scrittrice per aprire una scuola, e aderire in questo modo alle stesse aspirazioni pedagogiche che l’autrice realizzava nei propri romanzi. Altro che bambine ribelli.
C’è però un valore enorme in Piccole donne, che emerge in controluce, ed è la valorizzazione delle radicali differenze fra le quattro sorelle, la rivendicazione a essere davvero ciò che si è. Meg incarna la giovane donna perfettamente inserita nelle logiche borghesi, attenta alle buone maniere e desiderosa di apparire sempre perfetta agli occhi della società. Jo, lo sappiamo, è la riottosa delle quattro, vorrebbe essere un maschio perché vorrebbe accedere a tutte le libertà che sono concesse solo agli uomini. Beth è l’angelo del focolare, dolcissima, timida e delicata, buona oltremisura. Amy (da sempre la mia preferita insieme a Jo) è frivola e dispettosa, quello che le nonne definirebbero un peperino. In un’epoca (questa) in cui le donne faticano a vedersi riconosciuto il diritto di essere ciò che sono, in cui (ancora) esistono e si impongono degli standard uniformi e banalizzanti di femminilità, l’affermazione di una sorellanza così forte e basata su differenze così profonde, che lungi dal volere essere appianate vengono invece sottolineate, è qualcosa di importante e prezioso. Il legame che stringe le quattro sorelle va al di là delle loro caratteristiche individuali: Meg, Jo, Beth e Amy non si amano e si rispettano per somiglianza ma per differenza, sulla base della loro condizione femminile e delle reciproche divergenze. Più di cent’anni prima delle Spice Girls, le sorelle March hanno intessuto la stessa narrazione che ha reso celebre le cinque popstar: esistono tanti modi, tutti legittimi, di essere donna, siamo forti e siamo unite perché (e finché) siamo tutte diverse.
Inoltre, il moralismo di Piccole donne non arriva mai a cancellare le incoerenze delle quattro sorelle: è vero che Jo vorrebbe essere un uomo, ma l’unico momento in cui la troviamo davvero sconfortata è quando si fa tagliare i lunghi capelli, il simbolo della sua femminilità. È vero che Meg persegue strenuamente gli ideali di bontà e onestà, ma poi si lascia continuamente stuzzicare da tutte le cose belle che solo la ricchezza può garantire. Il romanzo è pieno di situazioni in cui emergono le ombre, le ambiguità delle protagoniste, e l’autrice non sente mai il bisogno di risolverle in una sintesi: la dialettica di contraddizioni è anzi il motore di tutta la narrazione e della crescita dei personaggi, e anche se la patina di moralismo vorrebbe che le quattro sorelle fossero quattro modelli di perfezione, la penna di Louisa May Alcott le lascia vivere così, imperfette e scombinate come tutte (Arianna Montanari).
Altro che Jo, voglio essere Louise
Jo March: Piccole donne l’ho riletto per lei. Volevo capire se davvero ho cominciato a scrivere, e se continuo a farlo, per colpa sua. Ora il problema è che, se buttate “Jo March” in pasto a Google, conterete a mucchi le giornaliste, scrittrici e blogger che dichiarano: “volevo essere Jo March”. Il rischio che questo contributo corre è il vieto stereotipo. Rischio altissimo. Ma tant’è, l’impegno con Cultweek è preso, tocca gettare il cuore oltre l’ostacolo. Della Jo March letta a nove anni ho un bellissimo ricordo. Coraggiosa, intraprendente, anticonformista e brillante. All’epoca, lei era senz’altro la ragazzina che avrei voluto diventare. Per trasformarmi nell’arcibuona Beth, mi mancava non solo la pratica quotidiana del sacrificio, ma proprio il fisico, nella foto di classe ritrovandomi sempre nella fila di fondo, alta e corpulenta quanto il più robusto dei maschi.
Amy la vedevo come un tipino vanesio, e sciocca o vanitosa non ho mai voluto esserlo (con quale successo, non saprei dire).
Quanto a Meg, Meg era troppo: troppo grande, troppo donna, una vicemamma. Impossibile quindi che fosse lei ad instradarmi su un percorso che, nell’età di «Heidi» e «Candy Candy», neppure intuivo.
Jo, dunque. Jo era perfetta. Jo c’est moi, avrei detto alla maestra, se la maestra mi avesse spiegato chi sono Madame Bovary e Flaubert. E Jo c’est moi ho pensato fino a qualche settimana fa, quando ho affrontato di nuovo Piccole donne. Scoprendo le seguenti cose. Primo: Beth è di una timidezza border line. Beth ha un rapporto francamente patologico con le bambole. Beth è sì arcibuona, ma di una bontà sospetta. Fa pensare al cane che, sul punto di essere sopraffatto, smette ogni aggressività e porge il collo all’avversario. Mordimi. E l’altro, frustrato, schiumante di rabbia, mica morde. Ora, il collo offerto ai canini dell’antagonista non è bontà: è tattica. Nella migliore delle ipotesi, resistenza passiva. Beth March, timorosa di tutto, terrorizzata da una parola pronunciata a voce troppo alta, fronteggia il mondo mostrando la giugulare. Secondo: Meg non è una donnina. È una ragazza che si affaccia all’età adulta con la malagrazia di chi è appena arrivato. Manca niente che faccia scappare a gambe levate l’uomo che ama. Terzo: Amy, la piccola di casa, non è superficiale come la ricordavo. Diciamo che va per tentativi, povera anima, e fatica a trovare se stessa tra personalità tanto definite. Cioè, anche, opprimenti. Quarto e ultimo: Jo sarà anche tutto cuore (taglia i bellissimi capelli per aiutare la famiglia), ma quasi ammazza la sorellina importuna. Si mette di traverso ostacolando i progetti matrimoniali di Meg. Rifiuta di crescere con pervicacia capricciosa. Jo March è Peter Pan con l’impaccio della crinolina, e il sacrificio della chioma è un modo come un altro per allontanare da sé lo spettro incombente della Femmina Adulta, cioè sessuata.
Insomma, passati quasi quarant’anni dalla prima lettura, mi sono trovata tra le mani un altro libro. Piccole donne non è più quel Piccole donne, ma un testo carico di ambiguità, ombre, complicazioni. Ambivalenze che, a nove anni, ovviamente non percepivo. Il che non significa che non sapessi leggere. Significa che Piccole Donne non è liquidabile come vecchio romanzetto benintenzionato per brave bambine, ma è un dispositivo letterario che sprigiona senso, a nove anni come a quarantasette, e lo fa dal 1869. Un Classico, insomma. Non “Classico per l’infanzia”, Classico Classico. Finisce qui? Non proprio. Letta/riletta la storia della sorelle March; avvertito in molti passaggi il pulsare pertubante di un non-detto; annusato, sotto ogni pistolotto educativo, un lieve sentore di zolfo, mi sono innamorata dell’autrice.
Cercate in rete, leggete la bella nota introduttiva di Daniela Daniele all’edizione Einaudi. Scoprirete che Mrs. Alcott aveva un padre idealista e pasticcione; che le piaceva intrattenersi con la meglio gioventù dell’epoca; che scontava, come tutte, il pregiudizio di essere femmina in un mondo di scrittori maschi; che, probabilmente, somigliava alla Jo che ricordate anche voi: coraggiosa, intraprendente, anticonformista e brillante. E certo era sgobbona, versatile, creativa, ma anche assai concreta. E a quel punto potrebbe capitarvi di pensare quello che ho pensato io: no, grazie, non voglio più essere Jo March. Voglio essere Louise May Alcott (Raffaella Romagnolo, Cultweek, 5 maggio 2018).
In apertura un’immagine da Piccole Donne di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Eliza Scanlen.