“Mi era stato chiesto di pensare qualcosa sull’accoglienza” dice il compositore Gabriele Manca “io non me la sono sentita perché ho pensato che l’accoglienza oggi non c’è”. Da questa riflessione – pessimista – e prendendo spunto da un testo dello scrittore algerino Rachid Boudjedra è nata la composizione presentata con grande successo alla Fabbrica del Vapore da Divertimento Ensemble
Fabbrica del Vapore al completo, in una serata che ha richiamato un foltissimo pubblico, con aggiunta di posti in extremis per accogliere tutti. Una serata, quella del 15 maggio, permeata dalla musica di Divertimento Ensemble. Musica contemporanea che sa coinvolgere, che richiama a sé un pubblico incuriosito dal tema e dai nomi in programma. Quattro compositori dal curriculum internazionale (Ambrosini, Manca, Montalti, Saunders), con le loro partiture ricche di immagini, dedicate al mondo di un’integrazione che oggi è più auspicata che reale. In chiusura di programma il brano Lettres comme à l’envers (Come lettere al rovescio), di Gabriele Manca, ha rappresentato la distanza e l’incomprensione che oggi distinguono l’incontro della nostra cultura con quelle di chi emigra, con la parola e i gesti dello straniero.
Gabriele Manca è diplomato al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano dove oggi insegna composizione. Ha realizzato musiche per la Fenice di Venezia e durante una permanenza in Giappone si è occupato della musica del Teatro Noh. Portare in musica il tema dei migranti è per lui impegno politico, presa di posizione importante da parte di un artista. Il suo lavoro si inserisce nella rassegna Rondò, e coinvolge un coro di più di trenta voci, quelle Nuove Voci che hanno prestato il loro impegno amatoriale alla causa. È proprio Divertimento Ensemble che da quindici anni organizza la stagione Rondò, dedicandola ai temi della nostra attualità, e soprattutto ai giovani e alle nuove composizioni. Quest’anno conta 28 prime esecuzioni assolute, in un programma che si estende fino a settembre 2018.
Noi abbiamo voluto parlare con l’autore di Lettres comme à l’envers, per il carattere internazionale e multidisciplinare della composizione, che si ispira a un testo dello scrittore algerino Rachid Boudjedra, intellettuale e attivista politico, che vive tra Algeri e Parigi, impegnato socialmente e da sempre oppositore dell’integralismo islamico. Il suo Topographie idéale pour una agression caractérisée (Topografia ideale per un’aggressione caratterizzata) che il compositore ha scelto come punto di partenza per il suo lavoro, è ambientato nel metrò di Parigi e racconta la storia di un migrante che, incapace di comunicare con il mondo occidentale, si perde tra le icone e i simboli della nostra società. Il compositore Gabriele Manca ci ha raccontato la genesi e l’intento del suo testo e della sua musica, affermando «spero sempre che l’opera letteraria e quella musicale possano integrarsi, non rispecchiarsi o sommarsi semplicemente».
Come ha conosciuto Rachid Boudjedra e come ha deciso di lavorare sul suo testo?
Ho letto un primo libro di Rachid Boudjedra negli anni ottanta che mi aveva entusiasmato per lo stile molto asciutto, molto netto. E così dopo ho iniziato a comprare tutti i libri di Boudjedra che trovavo. Così mi sono ritrovato a leggere anche Topografia per un’aggressione caratterizzata, che mi è piaciuto moltissimo per lo stile pulito e per il contenuto molto forte. Ho poi deciso di comprare il libro in francese, trovandolo molto chiaro, con una scrittura distillata, pulita. Mi è rimasto nella mente per anni, finché non ho utilizzato l’idea di questo “spazio aggressivo” in un mio pezzo per flauto e orchestra. E poi in occasione di questo lavoro sull’immigrazione è nato l’uso più massivo del testo di Boudjedra.
Il suo lavoro, similmente a quello di Boudjedra, vuole esprimere la lontananza tra culture?
Proprio così. Quando mi hanno chiesto di fare qualcosa sul tema dell’accoglienza, io non me la sono sentita perché ho pensato che l’accoglienza oggi non c’è. Ho voluto guardare il tema della migrazione con il mio approccio pessimista, perché trovo che oggi non ci sia rispetto umano, né ci sia rispetto per la fatica dei lunghissimi viaggi dei migranti. Mi ero accorto infatti che all’arrivo di una piccola comunità di migranti nel paese in cui abito, nella bergamasca, avevano suscitato intorno a loro molta diffidenza, molta paura ingiustificata. Ma sono ragazzi assolutamente inermi, cha hanno dovuto affrontare viaggi molto pesanti: sono loro a correre il pericolo, non noi. È per questo che mi sono sentito molto vicino al testo di Boudjedra, per l’idea dello smarrimento, del labirinto, e ho ripensato all’inizio del libro in cui il protagonista si sente spaesato all’interno del metro di Parigi, senza riuscire a comunicare con nessuno.
Il testo di Boudjedra è immaginifico, qual è la lettura che lei ha voluto dare al libro?
Sì, Boudjedra volge tutto anche all’efficacia delle immagini, pur essendo tecnicamente molto sobrio, ma rende molto bene il rifiuto da parte del mondo occidentale. Perché inserisce il migrante appena arrivato nella città di Parigi in un contesto di segni e simboli che non comprende, e che sono il primo muro che lui incontra nel mondo occidentale. Ancora prima dell’ostilità degli uomini, sono le frecce, le indicazioni del metro a essergli ostili. Quello che mi ha turbato e affascinato allo stesso tempo di questa immagine è l’ostilità del luogo, delle forme, delle pubblicità. Perché noi ci costruiamo delle barriere di rifiuto, che è prima fisico ma poi diventa culturale, è fatto di muri, di figure e di forme dietro ai quali siamo barricati.
Questa cultura dell’immagine è rispecchiata nei colori che lei cita nella sua composizione?
Sì, perché nella nostra società abbiamo un fragore, che è acustico ma è anche luminoso. Noi siamo sopraffatti da un fragore di immagini a cui non facciamo più caso, ma ci ritroviamo sovrastati da una tempesta di informazioni che non hanno più alcun valore nemmeno per noi, perché sono talmente tante che non hanno più effetto.
Qual è il rapporto tra il testo che ha affidato alle voci e la musica degli strumenti?
Il lavoro di composizione è sempre un lavoro di scelta. Il rapporto col testo è un’antichissima questione per il mondo della musica. Il testo non è detto che si capisca, ma serve a dare una direzione. Questa mia interpretazione del testo vuol dire “labirinto”, e all’inizio è una reiterazione di sillabe che sono esattamente la descrizione di forme, di cose, di oggetti. È una descrizione oggettiva di quello che questo giovane vede, molto fredda. E quindi ho voluto mantenere una litania di sillabe che si succedono una dietro l’altra, che formano parole ma che in realtà generano incomprensioni. Poi c’è una parte centrale con la voce solista della soprano, più cantata, a cui ho voluto attribuire un tono più materno, ma che più avanti sbotta in una serie di improperia, per inveire contro le sventure del mondo, contro Dio qualche volta, come facevano nel rinascimento. C’è quindi un urlo della massa e poi si riassorbe tutto in un silenzio riconquistato.
In che modo ha lavorato alla partitura, sugli elementi compositivi e al significato dei suoni?
Ho cercato di rendere il vagare senza meta con una sorta di litania, di sillabazione in un’atmosfera fatta di suoni indefiniti, instabili, cupi e sordi. Non volevo in alcun modo cadere nel didascalico e nel retorico, ma di certo una qualche situazione di disagio sono riuscito a trasmetterla. L’importante è sempre pensare che la musica non sia una sorta di “massaggio” per l’anima. La musica può anche far male. E in certi casi deve far male. La musica si ascolta sì con le orecchie, ma anche e soprattutto con il corpo, come deambulando in uno spazio architettonico, in un luogo che temporaneamente abitiamo. La musica è un luogo. Mi piace pensarla così.
Nel suo Lettres comme à l’envers lei scrive “l’ultimo itinerario è il più terribile”: come commenta questa affermazione? E in che modo questa frase e il suo lavoro rispecchiano l’opera di Rachid Boudjedra?
L’itinerario più terribile è proprio il viaggio estremo di molte persone, che rappresenta il pericolo di una vita messa a disposizione della sorte. Questo vuole essere anche una denuncia, credo che sfoci nell’impegno politico, ed è la prima volta che faccio un lavoro così esplicitamente politico.
Io spero che il lavoro letterario e quello musicale si integrino. Questo credo sia il cruccio di tutti i compositori, integrare la parola e sperare che ne derivi un terzo livello, che non è né quello delle parole né quello della musica, ma non deve nemmeno essere una somma. Spero che le due opere possano integrarsi, generare un messaggio che sia nuovo, sia qualcosa di terzo.