Leviathan: l’amore, la morte, il potere (e Putin)

In Cinema

Il russo Andrei Zvyagintsev (Leone d’Oro a Venezia 2003 con “Il ritorno”) racconta un inferno pubblico e privato che trova il passo della metafora universale

C’è da credere a Andrei Zvyagintsev quando suggerisce di interpretare il suo splendido Leviathan come una metafora universale della solitudine dell’individuo di fronte e contro lo Stato, la Chiesa, i poteri forti (politico, economico, giudiziario). E dell’incoercibile, anche quando perdente, afflato per la libertà del singolo, che combatte per il rispetto dei suoi diritti naturali e sociali, in una battaglia individuale, certo, ma molto meno individualista della sete di denaro e potere degli uomini di regime, nel suo paese come altrove.

Certo però il suo intento polemico sullo “stato di cose presente” in Russia è evidente in ogni inquadratura del suo lavoro, ben prima che il ritratto di Putin campeggi nell’ufficio del sindaco carnefice: lo straordinario regista di Novosibirsk, capoluogo siberiano gelido quanto l’affascinante location, sulle rive del mare di Barents, che fa da sfondo al film (nella cinquina dell’Oscar, vincitore del Golden Globe al miglior film straniero, premiato per la sceneggiatura, scritta con Oleg Negin, a Cannes 2014), non nasconde affatto i suoi intenti polemici “interni”. La riprova sta in questa istruttiva intervista che ha dato mesi fa a Shaun Walker, corrispondente politico del Guardian in cui dichiara che «vivere oggi in Russia è come camminare su un campo minato, è questa la sensazione che provi». E «ho superato i 50 anni e nella mia vita non ho mai votato alle elezioni, perché sono convinto che nel nostro sistema politico è un passo del tutto inutile”.

Così non stupisce che questa storia di un’impossibile ribellione allo status quo sia incorniciato, assai efficacemente, al principio e all’epilogo, da due sentenze di tribunale, entrambe implacabili verso il suo protagonista, lette con burocratico fastidio da due corti senz’anima, che prima lo espropriano di tutti i suoi beni, la casa in primo luogo, e alla fine lo condannano a 15 anni di carcere per l’omicidio della moglie. Di cui è invece, con ogni evidenza, del tutto incolpevole.

Kolya è un ombroso meccanico, che vive con la moglie Lilya e un figlio frutto di un precedente matrimonio in una bella villetta di fronte al mare. Da molte generazioni la sua famiglia vive lì, ma un giorno il sindaco della città (il luciferino Roman Madyanov) decide che vuole il terreno per costruire un resort da ricchi burocrati metropolitani. Prepotente, ben coperto, corrotto e corruttore, cerca di convincere Kolya a vendere; poi, di fronte al suo rifiuto, ottenuta una sentenza favorevole, si appresta a sfrattarlo. Ma ha fatto i conti senza questo ex-militare dal temperamento coriaceo, che sfodera le sue armi per incastrare il sindaco e salvare la casa, fidando sull’aiuto di un amico avvocato di Mosca (l’agido Vladimir Vdovichenkov). Ma la macchina del potere, quando si mette in modo, non si può fermare tanto facilmente….

Leviathan è debitore, fin dall’impegnativo titolo più dalla Bibbia che da Hobbes, lo dice lo stesso regista: e la discesa agli inferi suggerita dalle vicende del suo sventurato protagonista (l’eccezionale, granitico Aleksey Serebryakov) ha più a che fare con l’ultraterrena vicenda di Giobbe che con il contratto sociale teorizzato dal filosofo inglese nel ‘600. Che pure si attaglia perfettamente alla Russia putiniana, in cui l’individuo, e la società intera come somma di singoli, si è consegnata nelle mani di un potere senza limiti che promette di difenderla in primo luogo proprio dai soprusi che il Leviatano statale stesso minaccia di infliggerle.

Zvyagintsev mette al servizio di una storia che solleva un’enorme mole di spunti e sentimenti universali (l’amore, la morte, il tradimento, il sopruso, la sete di giustizia), tutti “più grandi della vita”, il suo modo di raccontare asciutto, essenziale, molto profondo, che gli ha garantito con pieno merito nel 2003, all’esordio da regista, il Leone d’oro a Venezia con Il ritorno, racconto del rapporto estremo tra un padre e due figli bambini. E quanto affascinano le scogliere quasi artiche, pittoricamente fotografate da Mikhail Krichman sulle note di Philip Glass, alle quali si affaccia la sventurata Lilya (l’eterea Elena Lyadova), meditando forse il suicidio, per poi emergere dalle acque, cadavere usato dallo stato per incastrare lo sventurato compagno: su quello sfondo il film parte ironizzando sulla quotidianità del popolo russo, tra malsane bevute “esistenziali” e supina disponibilità al potente del momento, per concentrarsi nelle seconda parte, amara e drammatica, sul destino di sofferenza del protagonista, vittima sacrificale sempre più sola e sempre più grande. Tra relitti di case e imbarcazioni abbandonati nel mare, svetta un gigantesco scheletro di balena, altro riferimento al Leviatano del titolo.

E pensare che l’idea del film era nata da un fatto di cronaca accaduto in Colorado, negli Usa, protagonista il saldatore Marvin John Heemeyer e il suo bulldozer vendicatore di torti, arricchita da una cronaca medievale dei tempi di Martin Lutero, riportata dal racconto di Heinrich von Kleist Michael Kohlhaas…

Leviathan di Andrei Zvyagintsev, con Aleksei Serebryakov, Elena Lyadova, Vladimir Vdovichenkov, Roman Madyanov, Sergey Pokhadaev

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