All’Elfo Puccini, Eco di Fondo porta in scena la complessità del confronto quotidiano con l’autismo, in un testo sincero a tratti spietato a firma di Tindaro Granata
Cosa accadrebbe se da ciò che è sorto come parte di sé, ci si svegliasse un giorno accanto ad un alieno? Un essere vivente, sì, ma giunto d’improvviso da un altrove sconosciuto per squadernare consapevolezze, rovesciare tutti i codici, soprattutto quelli che istintivamente siamo portati a ritenere più naturali e indispensabili: il linguaggio, ma prima ancora il gesto e l’emozione.
Ogni genitore è chiamato a confrontarsi, almeno per una frazione della propria esistenza, con l’abisso angoscioso dell’incapacità di comprendere chi era certo di conoscere. Ma cosa significa confrontarsi con le persone per le quali l’istante si dilata nella parabola di una vita intera? Con quegli esseri umani che decostruiscono il concetto di comunicazione per come noi lo conosciamo, costruendo una realtà apparentemente impossibile da decodificare con gli strumenti in dotazione alla gran parte delle altre persone? È a compiere questa esplorazione spaziale che sono chiamate le famiglie delle persone autistiche, protagoniste di Dedalo e Icaro al Teatro Elfo Puccini. A sbrogliare il frastuono di interferenze nella ricezione che sovrastano ogni suono a loro noto, per entrare nel mondo misterioso di chi, come Giacomo, vede rumori e ascolta sapori.
Clinicamente si chiamano stereotipie, le ripetizioni ossessive e costante di gesti – spesso incongrui, quasi sempre fuori contesto, che caratterizzano vistosamente le persone autistiche. Manifestazioni misteriose, che rispondono a logiche che ancora la medicina non è in grado di spiegarsi. Sono loro a pervadere – grazie a un lavoro di mimesi sorprendente di Giacomo Ferraù, che presta corpo e nome, a chi non dispone dei propri, mentre le parole le presta il mondo, le famiglie, chi con l’autismo ha a che fare tutti i giorni.
È da un lavoro di grande studio, viene da pensare, che prende seme un testo – firmato da Tindaro Granata, che sotto la scarna asciuttezza della forma, che a tratti si concede qualche adagio nel didattico – prova a indagare un tema dove il rischio della banalizzazione è a un passo, giustapponendo una serie di quadri che sono istantanee delle giornate di una famiglia, componendo un quadro che esplora la caduta, più che il volo. Nel risultato infatti non c’è niente di retorico e poco di melenso, ma c’è invece molto spietatamente diretto, a tratti persino crudo.
Perchè la quotidianità dell’autismo può essere un’impresa sfibrante, senza respiro, che chiede abnegazione, pazienza, e soprattutto un amore viscerale. Una sfida, per chiunque vi si trovi coinvolto, capace di effetti deflagranti, perché essere capaci di gestire un alieno riconoscendolo per l’essere umano che è, se la forza non basta può significare un crollo in un burrone di astio, distanza, impotenza, finché tutto viene meno. Un fratello nato per paura può vedersi mutilato del futuro, una madre non trovare più il fiato per restare, e un padre votarsi all’esigenza di essere necessario: e tutti ostinarsi a proiettare in un figlio non ciò che è, ma ciò che loro vorrebbero che fosse, lungo la china spesso posticcia e doppiamente affilata della parola “speciale”.
La regia pulita e lineare che Ferraù condivide con Francesco Frongia vede Giulia Viana, Libero Stelluti, Vincenzo Giordano – che prestano a loro volta i nomi rispettivamente alla madre, al fratello e al padre di Giacomo, moltiplicarsi efficacemente nella infinita teoria di medici, psicologi, semplici curiosi, cui ogni famiglia di autistici è chiamata a venire a contatto giorno per giorno. Vicinanza sporcata di compatimento, giudizi grevi, banalità fruste fanno da inevitabile corollario da affrontare per chi non è – o ha un famigliare che non è – conforme, chi non comunica coi codici comuni.
Amici che smettono di frequentarti, spese che diventano gimcane, una fisicità portata all’estremo, che se in teatro acquista un’eleganza vicina alla danza fuori scena è fatta spesso di gesti inaspettati e di sanguigni corpo a corpo tra chi cerca la misura del proprio rispetto al mondo e chi si vede piegarsi sempre di più sotto il peso di un tempo che inevitabilmente passa.
Perchè l’autismo non è una malattia da compatire, ma una condizione da gestire. Un autistico, nei suoi personali e ancora in gran parte insondabili codici d’esistenza, ha le stesse esigenze di tutti gli altri. Da quelle fisiche a quelle emozionali e relazionali. É un uomo che, esattamente come gli altri, chiede al mondo di essere riconosciuto come tale.
E per questo deve vivere, imparando a volare da solo. Anche rischiando, come Icaro, di avvicinarsi troppo al sole. Il compito della società intera verso chi è “diverso” dalla massa è soltanto questo. Offrirgli le ali, perché sia lui – nella sua indipendenza conquistata passo dopo passo, a uscire dal labirinto dell’imbarazzo dei molti, di quella che il linguaggio comune chiama assenza di uscita, assenza di cura, rassegnazione, frustrazione, incapacità di leggere una lingua sconosciuta. E che per chi lo vive, qualsiasi sia il mondo da cui lo fa, l’extraterrestre che gli compare davanti agli occhi con lui solo può comunicare, significa volare.