Imparare a sognare sogni praticabili, legittimare l’amore fuori dall’età canonica, diventare orfani da grandi, costruire solidarietà intergenerazionale, non sprecare l’intelligenza, continuare ad apprendere, progettare il mondo con empatia. Ripensare tutto. Così il nuovo libro di Lidia Ravera, pubblicato da Einaudi, si fa manifesto (vivissimo, acuto e intelligente) della necessità di liberarci dai pregiudizi sull’età.
Cento pagine incandescenti: un manifesto, un concentrato analitico, l’emersione di una attualità vivissima, e negata.
Si chiama Age Pride, lo firma Lidia Ravera, ed è – molto semplicemente – una lettura indispensabile per aprire gli occhi sul presente, e sul vicino futuro dell’Italia. L’unico accorgimento necessario è quello di non dimenticarsi di avere una matita vicina, perché non passa pagina che l’autrice non costringa lettori e lettrici a ragionare, a rivedere il proprio tempo, a ficcare il pensiero su quello che sta sotto i nostri nasi, eppure non trova parola.
Stigmi, ageismo, maschilismo nella rappresentazione dell’invecchiamento, mutismo delle istituzioni, femminismo in ritardo, improvvidi buchi di memoria da parte delle strutture statali, stereotipi pregiudiziali e, soprattutto, sistematica espropriazione della dimensione del desiderio dall’orizzonte dell’età adulta: Ravera è battagliera su ognuno di questi fronti; ironica e appuntita, coraggiosa sempre, e la pazienza con cui sviluppa i suoi argomenti è pari all’impeto con il quale si impegna a tirarli fuori dal silenzio.
A isolare i temi che escono da queste pagine si finisce per trovarsi di fronte a una decalcomania che va memorizzata per bene: in particolare: per chi, in ogni ordine e grado, tiene in mano il pensiero politico e amministrativo del nostro contesto sociale. Ma non è per niente male anche per chi, giovane, giovanissimo, varrebbe ben la pena si facesse una idea sul tipo di mondo che gli si sta preparando intorno.
Nel 1960 gli italiani ultrasessantacinquenni erano il 9 per cento della popolazione, oggi sono il 23 per cento.
Nel 1960 inoltrarsi al di là dei settant’anni era una rarità. Un privilegio da benestanti. Una fortuna. Un eroismo.
Oggi la vecchiaia è un fenomeno di massa. Vecchi siamo tutti.
Non facciamo più notizia.
Non facciamo più invidia. Ma neppure pena.
I più gentili ci suggeriscono di mascherarci.
Giovani no, ma giovaniformi sì, è possibile. È perfino raccomandato.
Lidia Ravera lo dice subito: il tempo in cui viviamo è un territorio inesplorato. Per la prima volta la vecchiaia è un fenomeno di massa.
Questo significa il generico “invecchiamento” che saltuariamente occupa i titoli dei giornali, pronto ad essere immediatamente rimosso nel giro di poche ore a favore dello strillo successivo; eppure i numeri hanno tutte le caratteristiche per imporsi come misura di sistema, poiché più di 14 milioni di italiani, oggi, supera i 65 anni d’età. Quasi un quarto della popolazione.
Com’è, allora, che la percezione della vecchiaia è ancora legata a una sensazione di vergogna?
Com’è che ogni singola particella della vita sociale e dei servizi risulta concentrata su due terzi dell’esistenza umana – mentre per l’ultimo terzo prevale una rimozione pressoché integrale?
Ci sono almeno tre questioni legate a questo, spiega la scrittrice: il primo fattore è la rappresentazione.
Siamo una società crudelmente giovanilistica e marcatamente senile perché essere vecchi fa vergogna.
E perché fa vergogna? Qui si inserisce un fattore di genere.
Se gli uomini odiano invecchiare è perché i vecchi non sono socialmente considerati.
Perché la loro potenza sessuale non è più garantita dal testosterone.
Perché non sono più produttivi. Non lavorano. E se non lavorano non possono più identificarsi con la loro funzione.
Le donne odiano invecchiare perché non riescono più a immaginarsi oggetti di desiderio e non hanno ancora imparato a immaginarsi soggetti di desiderio (…) Aspettano ancora, le donne, anche se spesso non se ne rendono conto, di essere scelte.
Se da una parte il femminismo tace sulla prigione dell’età, afferma Ravera, dall’altra il nostro presente è ancora dominato da condizionamenti maschili sul giudizio nei confronti dell’invecchiamento.
E su questa prospettiva si incardina la terza grande questione, che è di natura politica. Nonostante i numeri, infatti, i grandi adulti non sono un soggetto politico, che fa politica: così, nel silenzio, le scelte della politica ignorano un quarto della popolazione italiana, o portano avanti modelli che non corrispondono più alla realtà, salvo scoprirsi drammaticamente incapaci di fronte a improvvise emergenze.
Eppure, invita Ravera, l’equazione sarebbe induttiva: per la prima volta una massa di uomini e di donne sta facendo esperienza in prima persona di un tempo totalmente ignoto; che si rendessero – e fossero resi – protagonisti di scelte, leggi, nuovi modelli di vita dovrebbe essere un passaggio obbligato, naturale, e positivo.
Ma di che parliamo, se in Italia non è nemmeno mai stato contemplato un assessore alle politiche senili?
L’allungamento dell’aspettativa di vita è un progresso, ma per poterne godere bisogna ridisegnare la società, ridefinire la classi d’età, lavorare per un welfare che tenga conto della dimensione di massa dell’invecchiare, bisogna creare opportunità di lavoro e di espressione di sé, inventare stili di vita, costruire case comuni da abitare con agio, ricollocare competenze affinate negli anni, imparare a usarle.
Non si può scendere dal tempo, ma si può cercare di non averne paura, scrive Lidia Ravera; del resto, rottamare l’intelligenza dei vecchi non è altro che l’altra faccia della medesima responsabilità: sprecare quella dei più giovani.
E in un momento nel quale, per la prima volta, i nonni hanno la pensione mentre i nipoti chissà, è un dovere (anche morale) pensare e agire nella prospettiva di una – davvero nuova – armonia sociale.
Gli “altrimenti” possibili non sono per nulla favolosi.