“Nonostante il lungo tempo trascorso”: un titolo poetico per una mostra organizzata dallo Stato Maggiore della Difesa e dalla Procura militare e oggi più che mai necessaria che documenta gli eccidi nazifascisti, le deportazioni, l’internamento e le stragi dei militari, i processi. Fino al 25 giugno al Castello Sforzesco di Milano
«Nonostante il lungo tempo trascorso. Le stragi nazifasciste nella guerra di liberazione 1943 – 1945 STORIA – GIUSTIZIA – MEMORIA” è il bellissimo titolo di una mostra che, in epoca di rievocazioni costellate di omissis sui crimini del nazifascismo e di tentativi più o meno maldestri di inquinare i pozzi della memoria, apre una finestra di luce e ci fa respirare meglio. Molti gli elementi notevoli: la mostra gira l’Italia da un paio d’anni, organizzata dallo Stato Maggiore della Difesa e dalla Procura militare con il patrocinio della Presidenza della Repubblica e ora è approdata a Milano al Castello Sforzesco dove rimarrà fino al 25 giugno. Sono dati, fotografie, video, reperti e ricordi, raccolti dall’Anpi, dall’Isrec, dai vari musei della Resistenza e della Shoah, dai musei militari. Una costellazione di archivi che certo non si può definire di parte, ma un’applicazione concreta e scientifica di quello che si dovrebbe intendere per memoria condivisa.
Il titolo, a dispetto della musicalità e grazia, allude ad una delle pagine più nere della nostra storia di giustizia sistematicamente negata a decine di migliaia di morti e sopravvissuti, ovvero la frase cliché in calce ai provvedimenti con i quali il 14 gennaio 1960 il procuratore generale militare della Repubblica Enrico Santacroce archiviò centinaia di atti di indagine sui crimini di guerra. Suonava così: «…nonostante il lungo tempo trascorso dalla data del fatto anzidetto non si sono avute notizie per l’identificazione dei loro autori e per l’accertamento delle responsabilità; ordina l’archiviazione provvisoria degli atti». Centinaia di quegli atti, 695 per l’esattezza, finirono nell’“armadio della vergogna”, come lo chiamò il giornalista Franco Giustolisi, un armadio fisico con le porte rivolte contro il muro in una stanza della Procura militare di Roma, ritrovato casualmente nel 1994 dal giudice Antonino Intelisano, allora alle prese con il processo Priebke. Molti di quei fascicoli vennero poi presi in mano da Marco De Paolis, allora procuratore militare a La Spezia e attuale procuratore Generale Militare presso la Corte Militare di Appello di Roma e principale curatore della mostra. Lui l’ autore del ribaltamento semantico nella scelta del titolo: nonostante il lungo tempo trascorso in molti casi si è cercato e si è potuto fare giustizia. In molti casi no e questa mostra così sghemba rispetto ai tempi che corrono serve proprio per impedirci di mettere la coscienza a posto e archiviare il passato.
Il materiale esposto è diviso in quattro sezioni: molto ricca, dato il committente, quella sulle stragi dei militari, vittime i soldati italiani che dopo l’8 settembre si sono opposti ai tedeschi e non hanno aderito alla Repubblica sociale, da Cefalonia a Salvo d’Acquisto, ai militari uccisi alle Fosse Ardeatine. C’è però anche la segnalazione di stragi compiute all’estero dall’esercito italiano, come il massacro di Domenikon in Grecia, dove il 16 febbraio 1943 per rappresaglia all’uccisione di 9 camice nere da parte dei partigiani greci venne massacrata la popolazione di un villaggio, 180 morti. Di questo caso si occupò lo stesso De Paolis in una lunga indagine contro i vertici militari che condussero quell’azione, archiviata poi per la morte degli imputati. La sezione sui deportati oltre alla deportazione dei civili, presenta molto materiale sugli Imi, gli internati militari di cui si parla sempre troppo poco: 650mila su 800mila deportati italiani, 50mila di loro morti nei lager o nei campi di lavoro. Le altre due sezioni trattano le stragi di civili e i processi. Bastano due numeri: 5872 eccidi censiti e 24409 vittime, uomini, donne, bambini, vecchi.
Oltre ai fatti più noti, come Marzabotto o Sant’Anna di Stazzema, una galassia infinita di episodi che ha percorso tutta la penisola, molti sconosciuti e dimenticati, a cominciare da tutti quelli avvenuti al Sud dove in pochissimi mesi di occupazione tedesca si calcolano 2.623 vittime civili in 942 episodi di strage. Per pochissimi di questi fatti di sangue c’è stato il riconoscimento di colpevoli e di una verità giudiziaria ed è questa forse la parte più disturbante della mostra. Dopo i processi ai criminali nazisti celebrati dai tribunali alleati subito dopo la guerra (il principale quello a Kesserling per la strage delle fosse Ardeatine, che dopo la condanna a morte a furia di riduzioni di pena venne scarcerato nel 1952), un’altra stagione di processi si svolse tra il 1995 e il 2002. Tra questi nel 1999 il processo conclusosi con l’ergastolo al capitano delle SS Theodor E. Saevecke per l’eccidio di Piazzale Loreto a Milano del 10 agosto 1944. Ma dal 2002 è stato soprattutto De Paolis a prendere in mano almeno 100 fascicoli che hanno portato a 17 processi tra cui quello per la strage di Cefalonia e di nuovo Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema con nuovi imputati.
Tra i documenti visibili oltre ad oggetti appartenuti alle vittime, come il diario scritto in calligrafia minuscola da un internato militare o la bambola di una delle tante bambine morte in una delle stragi di civili, accanto a molti video d’epoca anche quello della formidabile inchiesta che nel 2002 il giornalista tedesco Udo Gumpel realizzò per l’emittente Ard, andando a scovare vecchi gerarchi impuniti che si godevano una serena vecchiaia a casa loro e contribuendo a riaprire molte inchieste. Uno di questi era Klaus Konrad, responsabile della strage di San Polo ad Arezzo del 14 luglio 1944, poi influente esponente dell’Spd, che ammise in parte le sue responsabilità e venne processato nel 2004, ma morì prima della sentenza. A San Polo morirono 65 tra partigiani, donne, di cui una incinta e bambini. Tra i sopravvissuti Lorenzo Buzzini, un bambino di 7 anni che perse genitori, nonni, cinque fratellini, e che, come riporta una frase di De Paolis in uno dei pannelli, dalla vita non ha ricevuto nulla, né giustizia né altro.
In apertura Le fosse ardeatine.