Lucia di Lammermoor alla Scala diretta dal maestro in un’edizione raffinatissima, anche grazie alle ottime voci. Fra tutte spicca quella ricca di accenti di Oropesa. La soprano americana modella le frasi sull’espressione, squilla quando deve squillare ma conosce l’arte delle mezzevoci
Un billionario cretino, come molti suoi colleghi (basta aspettare qualche migliaio di licenziamenti e un paio di tweet), in questi giorni ha riaperto bocca per dire che “l’Italia sta scomparendo”. Se il billionario cretino spendesse qualche spicciolo delle sue malate ricchezze (anche lì, basta avere pazienza) per venire alla Scala, magari girellando per la città gonfia di stranieri nella settimana del cosiddetto Design, forse capirebbe perché l’Italia non scomparirà mai dai radar del mondo.
La nostra longevità non la dobbiamo a prime ministre e a piccoli ministri, ma a gente come un povero bergamasco nato nel 1797 in una delle città più belle del mondo – lo sa il billionario che sogna una villa su Marte? – scomparso a un’età che oggi si direbbe giovane (cinquantun anni), non più lucido di testa ma dopo aver scritto più di settanta opere (70), senza alcune delle quali i teatri del mondo non saprebbero che fare. Una di queste, Lucia di Lammermoor, se ben fatta, può strappare il cuore a chiunque abbia una luce dentro, come diceva Schiller, cosa che del billionario dubitiamo. In questi giorni (ancora il 20, 23, 26, 29 aprile, il 2 e il 5 maggio), alla Scala si compie il sortilegio che, quando le carte sono “a posto”, succede qui e soltanto qui: una platea di melomani e di tanti stranieri (evidentemente disinformati della “sparizione”), in delirio per aver vissuto una di quelle rivelazioni che l’opera italiana è capace di aprire nell’anima. Sotto la cenere di questo teatro, anche nei momenti mediocri o sonnolenti, cova una fiamma che, quando si fanno le cose “giuste”, divampa.
L’opera più celebrata di Gaetano Donizetti ha un momento per il quale la gente di Europa, Cina, Russia e America esce di casa e paga un biglietto anche se “intorno” (nell’opera) non ci fosse altro: la cosiddetta scena della pazzia. Lucia ama Edgardo, con cui stringe una promessa d’amore per sempre, ma la costringono a sposare un uomo che non ama e, guarda caso, è nemico “di famiglia” del neo marito non consumato, che lei uccide perdendo il senno (dopo, non prima). Quando questa scena viene vissuta in lucida trance da una cantante che ne tiene in pugno la verità, si compie il miracolo. La maga di questi giorni si chiama Lisette Oropesa, deliziosa soprano americana (come tante specialiste del belcanto ieri e oggi), una di quelle reincarnazioni del virtuosismo intelligente che l’Opera alimenta attraverso le generazioni smentendo i vedovi, anch’essi un po’ cretini, del “ma quando c’era lei, caro lei”.
Lisette Oropesa canta bene tutto in Lucia, ha la voce ricca, gli acuti che vibrano, non fissi e punitivi, modella le frasi sull’espressione, non lascia passare un da capo senza variarlo con estro, squilla quando deve squillare ma conosce l’arte delle mezzevoci, con il fisico da modella che si ritrova comunica con tutto il corpo e, sia benedetta, canta in italiano e respira con la parola. La sua scena della pazzia, che Riccardo Chailly ha voluto restituire all’incanto lunare dell’accompagnamento di armonica a bicchieri (quella che certi artisti di strada portano in giro), Lisette si trasfigura, esce da sé stessa e ferma il respiro anche ai più insensibili. Gli applausi che strappa a ogni aria e la mezza standing ovation che si conquista alla fine sono il traino per il successo di tutti: l’Enrico Ashton di Boris Pinkhasovich, l’Arturo di Leonardo Cortellazzi, l’Alisa di Valentina Plushnikova e soprattutto il Raimondo di Michele Pertusi (da studiare a scuola) e l’Edgardo di Juan Diego Florez, che, se è ormai un tic nervoso lamentarlo un po’ affievolito nel volume, anche lui, come Pertusi e Oropesa, lavora di stile e scolpisce la parola facendo felice il librettista Cammarano, che tra un lampo di Donizetti e l’altro, scrive anche versi di routine.
Tanto successo è ammirevole soprattutto perché raggiunto nonostante, se non contro, uno spettacolo inerte di Yannis Kokkos, che muove il coro come alla stazione (al massimo si agitano i fucili per aria), lascia ai cantanti il problema della recitazione (che ovviamente risolvono con le sbracciate, le mani sul cuore e birignao di repertorio), facendo intimare a Enrico “appressati Lucia” quando lei è già lì da dieci minuti, costringendo la povera Oropesa, nell’atto secondo, ad attorcigliarsi su sedie e divanetti per descrivere il tormento del matrimonio imposto.
Kokkos è uno scenografo di mano elegante, ma non basta disegnare tre belle scene – un bosco nell’atto primo, un vasto asimmetrico interno nel secondo, un geometrico fantasy con proiezioni nel terzo – per fare uno spettacolo. L’unica scena nella quale sembra di leggere un certo lavoro di regia è ancora quella della pazzia, su scalinata, ma non è chiaro quanto ci abbia messo Lisette Oropesa.
Quando si dice compagnia di canto, si dice direzione musicale, perché il cast non si fa da solo. Anche in questo titolo Riccardo Chailly non ha sbagliato nulla. Quel che chiede alle voci e all’orchestra ha una somma di esigenze che non permette mediocrità o approssimazioni. Lo strumentale domina e accompagna con la stessa proprietà, si apre e si chiude calibrando coloriti e colori, pulsa e si smussa con prontezza. Diretto così, immediato eppure raffinato, raffinatissimo nei dettagli, Donizetti cattura e commuove, ed è uno dei punti più alti degli anni di Riccardo Chailly alla Scala. Schematizzando, insieme alla Salome di Strauss del periodo Covid e il Boris Godunov di Musorgskij dell’ultimo sette dicembre, questa Lucia di Lammermoor è il vertice di un trittico esemplare perché allinea linguaggi fra loro lontanissimi. E vale molto, forse tutto, che coincida con il repertorio italiano più delicato da “centrare” e più carico di attese. Sempre a nervi scoperti.
In copertina, Lisette Oropesa/Lucia di Lammermoor (Foto: Brescia e Amisano@Teatro alla Scala)