Fino al 4 febbraio 2024 Palazzo Reale di Milano presenta la mostra Morandi 1890 – 1964 a cura di Maria Cristina Bandera, una delle più importanti e complete retrospettive sul pittore bolognese realizzate negli ultimi decenni. Un corpus espositivo di circa 120 capolavori che ripercorre l’intera opera dell’artista bolognese e tra le cui sale aleggia ancora la sagoma silenziosa e bonaria di chi ha saputo raccontarci, con straordinaria profondita di sguardo, l’assoluto.
Una serie non fraintendibile di coincidenze e di incontri metafisici con Giorgio Morandi – il grande artista bolognese oggi in mostra a Palazzo Reale di Milano con Morandi 1890 – 1964, a cura di Maria Cristina Bandera – ha costellato fin dall’inizio il mio percorso di formazione, a cominciare dall’essermi trovato, studente all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ad abitare in via Fondazza proprio di fronte a quel numero 36 dove trascorsero la vita lui, signorino, e le sue sorelle. Via Fondazza, strada scura e porticata, un tempo bassamente popolare se pur accanto alle Sette chiese e ai luoghi carducciani, era a quel tempo, ormai trent’anni fa, nel passaggio tra quel che era e quel che non fu più. Un bassofondo che diventava centro e poi centrissimo, di pochissimo dentro quelle mura che, con portici, torri (tette e tortellini) conferiscono a Bologna le sue caratteristiche inconfondibili.
Una sagoma si aggirava ancora per via Fondazza, l’ombra di un uomo alto, elegante, un po’ curvo, attorno ai sessant’anni, silenzioso e sottilmente sorridente. Era il ricordo vivo di Morandi negli occhi di chi lo aveva conosciuto, frequentato, osservato nei suoi passaggi abitudinari. Negli occhi dell’anziano che, seduto al tavolino del bar vetusto e non ancora vintage, raccontava a noi giovani commossi di quando bambino, in tempo di guerra (e che guerra), recuperava bottiglie tra i rifiuti, se queste erano “alla Morandi”, e a Morandi le portava, per una mancia e un sorriso sottile. Negli occhi del barbiere ancora aperto, che un tempo raccontava ai suoi clienti che a girare un quadro di Morandi, suo avventore, dalle bottiglie usciva l’acqua. E in quelli di noi studenti che ci appostavamo accanto al portone che fu della sua casa, che all’epoca non era ancora il reliquiario laico e un po’ kitsch che è ora ma era da altri abitata. Aspettavamo fischiettando che qualcuno uscisse e, bloccata la chiusura con un piede, ci intrufolavamo a guardare rapiti ed estasiati il “Cortile di via Fondazza”, così tante volte trasfigurato dalla finestra della sua camera-studio in luogo di pace metafisica, pieno di respiro e di luce.
Ascoltavamo attenti come bimbi i racconti del nostro Maestro, Concetto Pozzati, che da bambino, complice il nonno, saliva sulle ginocchia di Morandi per riceverne in dono le gomme da cancellare. Passavamo ore su ore a Palazzo d’Accursio dove allora era raccolta la collezione, immergendoci nelle sue prospettive pierfrancescane, catalogando pezzo per pezzo ogni oggetto del suo studio ricostruito. Arrivammo, fanatici, a partire per l’Appennino tosco-emiliano solo per stare in contemplazione dei suoi paesaggi cercando, libro alla mano, le inquadrature dei suoi dipinti di Grizzana. A guardare la casa, allora chiusa, dove trovò rifugio dalla guerra cercando pace, nel silenzio del “paesaggio più bello del mondo”, il suo paesaggio.
È un diario, questo, che nella mia memoria e in quella dei miei compagni di viaggio ha preso la forma del ricordo, dell’incontro reale con un uomo la cui vita terrena non si è nemmeno incrociata con la nostra ma che ha lasciato tracce indelebili e inconfondibili nello spazio ristretto e infinito tra Bologna e l’Appennino, tra la Via Emilia e il West. Un incontro avvenuto nello spazio metafisico della sua vita e delle sue opere, che trascendono il mondo fisico e quindi assolute, universali. In quest’aura si illumina la figura di Giorgio Morandi, pittore e incisore straordinario, figura silenziosa e potentissima. Passeggiare tra le sale del piano nobile di Palazzo Reale, che accolgono la mostra milanese, è come tornare a passeggiare in via Fondazza. Le 120 opere che raccontano i cinquant’anni di lavoro dell’artista provengono in buona parte, oltre che dalla Milano cui tanto il Maestro era legato, dal Museo Morandi, oggi al MAMBo e un tempo in piazza Maggiore a Bologna, e prima ancora nella straordinaria collezione Ingrao che di Morandi possedeva i pezzi migliori, se una classifica fosse possibile. Le sperimentazioni giovanili, la metafisica tout court; le bottiglie architettoniche e rinascimentali, inerti come molotov con lo stoppino spento ma sempre pronte a espoldere. E i fiori secchi, le conchiglie; i paesaggi silenziosi e aperti al limite del misticismo; la deflagrazione di luce infraordinaria del cortile alla finestra. Gli acquerelli. I passaggi e i ripensamenti dalla lastra alla stampa. L’abbondanza materica degli inizi, i vuoti che diventano pieni e i pieni che svaniscono negli ultimi anni. Si aggirava un tempo la sagoma di Morandi per i portici di via Fondazza. E ancora si aggira tra quei mondi, davanti e dentro le sue opere, l’ombra di chi, con i suoi silenzi e il suo sorriso sottile, non ha mai smesso di raccontarci l’assoluto.
Morandi 1890-1964, Palazzo Reale, Milano, fino al 4 febbraio 2024