Una conversazione con Michele Losi per scoprire il festival che dal 23 giugno al 2 luglio anima la provincia di Lecco, tra nuove forme e legami sempre più stretti con l’ambiente dentro cui il teatro vive
Cosa deve – o può – essere, il teatro oggi? L’estate è sempre un buon momento per scoprirlo. Non solo perché le stagioni teatrali non finiscono più con l’inizio del caldo, ma perché in questo periodo si concentrano, da tempo, alcune delle esperienze che – sovente da decenni – mettono in questione le forme e gli strumenti del teatro. Lo fa, da 19 anni, il festival “Il giardino delle Esperidi”, che in un luogo non comune e insieme evocativo come la provincia di Lecco, porta l’arte performativa e differenti forme di messa in scena a connettersi e a dialogare intimamente con l’elemento naturale.
Nell’edizione 2023, che si tiene da venerdì 23 giugno a domenica 2 luglio nei comuni di Colle Brianza, Olgiate Molgora, Ello, La Valletta Brianza, Sirtori, Valgreghentino, Olginate, con i loro sentieri romanici, antiche cascine, giardini, ville storiche e boschi, trovano spazio esperienze apprezzate come l’Aldo Morto di Frosini/Timpano, in apertura, o Renato Avallone, Camilla Barbarito, Laura Pozone e Alessandro Sampaoli in chiusura che danno voce al Fanciullino di Renata Ciaravino. Nel mezzo, a farla da padrone sono la performing art nel paesaggio e le opere site-specific in un dialogo con l’ambiente che è la grande peculiarità di questo festival.
Tra musica, spettacoli itineranti e un ampio sguardo verso l’estero e le sue suggestioni (Le Cucine(s), ad esempio, vede la collaborazione di ben sei realtà europee.
Trovano spazio ben tre prime nazionali, a segnalare un attento sguardo agli inizi: sono La capra della compagnia Bocchi/Scarrocchia, Humana Foresta della Compagnia Teatrale Petra e Sun Followers del regista olandese Sjoerd Wagenaar, prodotta da Campsirago Residenza e ispirata a Giordano Bruno e al sole.
Anche la rilettura dei classici, da Amleto a Gilgamesh, trova nuovi sguardi, fino ad Hansel e Gretel o Cappuccetto Rosso
A farla da padrone, è però, sempre lo sguardo teso al contemporaneo: da Spezzato è il cuore della bellezza di Dammacco/Balivo, che inanella premi Ubu, fino a WonderBoom! di Stefano Cenci, e alle molte esperienze in cui è il pubblico a diventare protagonista. Di questo e molto altro abbiamo parlato con il direttore artistico, Michele Losi, alla vigilia del festival: il programma intero è su www.ilgiardinodelleesperidifestival.it
Sono spettacoli che nascono per o si adattano ai luoghi nei quali nascono. Per l’esperienza che avete avuto, in quale modo lo spazio – soprattutto quello non teatrale – interagisce concretamente nella creazione e nella maturazione degli spettacoli?
Talvolta è l’opera che arriva nello spazio e si adatta, ma per quanto riguarda le produzioni del festival e la linea che stiamo prendendo in maniera sempre più radicale spesso sono i luoghi che creano l’opera. Partiamo.dagli spazi, da idee legate ad osservazioni in natura o relazioni specifiche con i luoghi e da lì nasce l’opera. Talvolta in maniera più compiutamente legata alla costruzione di una drammatologia, ispirata da un luogo. In alcuni casi può essere portata, adattata e trasformata in altri, invece alcune opere vivono solo ed esclusivamente di quel luogo. Della relazione con quegli spazi una certa luce o degli specifici suoni. All’interno del festival sono presenti tutte e tre le tipologie di questi spettacoli e di queste performance, opere che entrano in relazione con un luogo e in un certo modo si adattano al luogo, oppure opere che vengono ispirate da un luogo, ma che di fatto hanno poi una propria capacità drammaturgica di sopravvivere a luogo. e invece opere fatte soltanto per quello spazio e per quel tempo.
Quali specificità portano, in particolare, i luoghi e i paesi dentro cui si svolge questa edizione?
I paesi sono molto diversi tra di loro, e gli spettacoli sono pensati in relazione a questo. Ci sono dei paesi o dei borghi isolati che hanno ormai una relazione con l’arte e col teatro che dura da decenni, come Campsirago in cui comunque c’è un certo tipo di energia, di pubblico e forse di aspettativa. Ci sono piccole città industriali sul fiume come Olginate o luoghi come Valgreghentino che ancora adesso conservano una valenza “originaria” rispetto a questo territorio mezzo secolo fa. Infatti è un luogo in cui abbiamo deciso di lavorare con Cucine(s). Qui esistono tante persone che conoscono molto bene il proprio territorio e nella relazione con la natura, con le piante, con gli spazi architettonici, con la storia dei luoghi. È la caratteristica principale di questo comune. Ci sono paesi più residenziali, come Ello, infatti qui c’è la villa costruita dal Piermarini dei conti Amman, o Villa Besana dei conti omonimi a Sirtori, una villa storica del Settecento. O Mondonico dove abitò Testori, dove abitavano Gola, Morlotti o Pinin Carpi. Ognuno di questi luoghi ha delle caratteristiche molto precise, per cui è evidente che i lavori e le proposte abbiano a che fare con la tipologia di spazio.
Nelle scelte del programma di quest’anno, c’è molte volte la riflessione sul rapporto tra storia individuale e collettiva. Un modo anche per ripensare il teatro come “mezzo”?
Sì, Noi siamo sempre stati un centro di ricerca multidisciplinare e che mette al centro il performer, quindi Sì, questo è anche quello che continuiamo a fare e Infatti molte delle proposte del festival vanno in queste direzioni sia che siano nostre produzioni sia che siano invece proposte che ci arrivano da altri da altri colleghi ad altri o ad altri artisti. È evidente che questo è un ambito che ci permette una grande libertà di espressione e nello stesso tempo trova grande favore nel pubblico e non sono tanti i luoghi in cui questo genere di ricerca viene ancora portato avanti in maniera sistematica.
C’è tanto lavoro con l’estero. Cosa stiamo imparando dal teatro europeo e mondiale, o cosa dobbiamo ancora vedere e altrove si sta invece già mostrando?
Per noi è molto interessante continuare a indagare questo tipo di questo tipo di ricerca e a confrontarci con artisti che vengono da luoghi e contesti culturali, ma anche ambientali differenti. Ad esempio, in questo momento, mi sto confrontando molto con un’artista colombiana che lavora a Berlino ed è un’indigena Tant’è vero che il talk di quest’anno è su Amazzonia 2040, cioè su quello che sarà della Terra tra 15 anni: dove saremo, a che punto saremo. Questo avviene in maniera radicale rispetto alla costruzione degli spazi. Mi viene in mente la nostra sala prove che si sta trasformando in uno spazio davvero multiforme, con un impianto hi-fi giapponese molto particolare, con la possibilità di fare proiezioni di film di lavorare con le luci e con il suono in maniera molto approfondita. Tutto ciò viene dagli incontri con questi artisti come la produzione del Festival, i Sanfalowers: ho dato in pasto cinque danzatori, attori, musicisti che lavorano abitualmente con me a un bravissimo regista olandese che lavora da 40 anni nel paesaggio nel nord dell’Olanda in particolare, una zona che è stata molto feconda per la performing art, per i lavori nello spazio esterno. Per noi questo aspetto è vitale. Sicuramente avremo modo per i prossimi anni di sperimentare come sperimentiamo con Diafna che l’accademia Internazionale delle Arti Performative nel Paesaggio che abbiamo fondato insieme a Sjoerd Wagenaar che viene dall’Olanda a Florian Facchini che viene dalla Francia e Ryoko Baba che viene dal Giappone con cui portiamo avanti questo tipo di indagine e di ricerca.
C’è tanto spazio per i bambini, non solo in spettacoli dedicati a loro. Come si va, oggi, verso tutte le generazioni, se un cambiamento effettivamente c’è stato?
Lo spazio dedicato ai bambini è dovuto. Pensiamo che un festival non debba essere solo per gli adulti, o solo per bambini. Questa distinzione, a me, costa sempre un po’ fatica, L’ultima produzione cosiddetta per bambini che abbiamo realizzato, Hansel e Gretel, è uno spettacolo che messo in pomeridiana è perfetto per bambini di 4 o 7 anni, ma funziomna benissimo messo in notturna nel bosco per gli adulti. Sicuramente ci sono dei linguaggi, codici differenti, a primissima infanzia in richiede una particolare cura attenzione e linguaggio specifici, ma il festival, essendo di fatto noi un centro di produzione che si occupa di teatro nel paesaggio, di performing Garden e di produzione per l’infanzia, da sempre ha attenzione per i bambini e per le famiglie. La nostra stessa stagione teatrale si dispiega sui weekend e contiene sempre delle proposte anche per i bambini e per le famiglie. Sicuramente anche quelle non sono delle proposte convenzionali, sono un teatro di ricerca o sperimentazione per i bambini e le famiglie.
È un festival che chiede di mettere in campo il corpo, dell’artista come dello spettatore. Il teatro è corpo, come strumento di scena e “compresenza di corpi” cambia, e se si in quale modo, quando il movimento è condiviso con lo spettatore?
Il tema del corpo dello spettatore, come del corpo del performer, come del corpo del direttore artistico, o del corpo dei tecnici, ogni corpo che attraversa lo spazio, per me è centrale. La nostra nuova produzione, l’anno prossimo, si chiamerà Just Walking, ed esplorerà il tema del camminare in tutte le sue possibili declinazioni. Per me è basilare. I Crossing movement che facciamo durante il festival quest’anno sono degli attraversamenti dello spazio che servono a rallentare. Il pubblico, il pensiero. A mettersi in un altro tipo di attenzione. Sono delle proposte semplici, ma danno forma a un tipo di attenzione fondamentale non solo nelle performance, non solo nei lavori, ma nell’attitudine allo spostamento del pubblico. Questo per noi è al centro.