Un monologo a partire da una riflessione sul romanzo Lo straniero di Camus, in una narrazione che si fa domanda
Che significato ha per noi oggi la morte di uno straniero? La morte di un arabo, per la precisione, di cui non conosciamo nemmeno il nome.
Con questa domanda si apre Lo straniero – un funerale, in scena al Teatro i dall’8 al 29 maggio. Il testo, di Francesca Garolla, è liberamente ispirato al romanzo Lo straniero di Camus, la regia è di Renzo Martinelli, direttore artistico del Teatro i.
Buio in sala. Un’unica luce proveniente da un lungo braccio meccanico illumina la scena, composta da uno specchio verticale, posto sopra una pedana di mattoni.
Entra un uomo vestito di chiaro, interpretato da Woody Neri. Il colore e la trasandatezza dei suoi vestiti suggeriscono un’analogia tra quest’uomo e il protagonista del romanzo, Mersault, che un giorno d’estate uccise, senza nessun motivo apparente, un arabo su una spiaggia dell’Algeria.
Il monologo recitato da Neri è condotto in maniera dinamica, tagliente e ironica, pur nella sua drammaticità; il personaggio indaga senza sosta interrogando sé e il pubblico su quali siano state le cause che possono aver indotto Mersault a compiere l’omicidio. Tuttavia, lungi dall’essere un’indagine investigativa, il monologo appare più come un’immersione nella coscienza, uno scandaglio della mente umana. Con grande naturalezza Neri riproduce il tono di voce di colui che ragiona tra sé, seguendo il flusso dei pensieri, che interrompe alle volte con un sonoro e sorprendente “Nah”, urlato con una voce di follia che inquieta e scuote il pubblico.
Gli spettatori d’altronde si fanno quasi protagonisti, quando l’attore infrange la “quarta parete” e si rivolge direttamente loro, fissando lo sguardo nelle pupille di ognuno, dove per alcuni istanti la luce è puntata.
L’effetto di dinamicità, oltre che dalla voce e dal movimento energico del personaggio, è ottenuto anche grazie a questa luce mobile, che diviene quasi un secondo personaggio, sottolineando i punti focali con sapiente calibratura di direzione, angolatura e tempistiche. Sul finale, addirittura, è come se questa luce parlasse, proiettando sullo sfondo una sfera simile al sole, altro personaggio che, sebbene non vivente, ha una parte importante nello spettacolo.
In un crescendo di pathos, l’attore conduce il pubblico in un’analisi di coscienza collettiva. Davvero Mersault l’insensibile, Mersault l’indifferente è così incomprensibile?
Non ha speso una lacrima al funerale della madre, bevendo caffelatte e fumando una sigaretta di fianco alla salma, che aveva rifiutato di vedere. Ha una relazione con una donna, Maria, che però le interessa solo dal punto di vista sessuale, non nutrendo sentimenti per lei. Un giorno d’estate – siamo negli anni ’40 de ‘900- fa una passeggiata sulla spiaggia e incontra degli arabi; Mersault ha una pistola in tasca e spara a uno di loro, senza un’evidente ragione. Una volta a processo, ciò che determina la condanna a morte di Mersault non è tanto l’assassinio perpetrato, quanto la mancanza di pentimento e sentimenti, in una totale apatia e indifferenza. L’unica causa addotta da lui al processo è infatti il sole, un sole troppo caldo, abbacinante.
Se Mersault ci appare indecifrabile per la mancanza del movente, a ben vedere, non è poi così distante da noi.
Cosa ci importa in fondo della morte di uno straniero? “Non più della morte di una mosca”, provoca l’attore. Non è vero, in fondo, che abbiamo a cuore la morte di qualcuno solo se essa ci tocca da vicino e, cioè, solo se conosciamo il morto o se in qualche modo ci riconosciamo in lui?
Mersault era in fondo figlio del suo tempo, di una terra colonizzata dai francesi, dove gli arabi non erano uguali a lui, ma diversi, lontani; non per niente l’arabo rimane un anonimo, che dopo la morte può tutt’al più assurgere al rango di Arabo con lettera maiuscola nella mente di Mersault, diverso dagli altri in quanto è quello che ha ucciso.
In fondo, nulla è necessario nella vita se non la vita stessa e la morte. Tutto il resto è costruzione, è frutto di una scala di valori costruita dagli esseri umani e come tale, è variabile, modificabile nel tempo e nello spazio.
Un’esperienza di “rottura”, di “risveglio violento” è fatta vivere al pubblico tramite atti simbolicamente violenti e spiazzanti, come una lampadina che viene fatta esplodere, una sedia lasciata cadere o un colpo di pistola.
Lo straniero- un funerale offre domande e scuote dalla routine quotidiana, svegliando le menti in una riflessione a tratti filosofica sulla natura dell’uomo e dell’esistenza. E’ uno spettacolo che con suspence e tensione emotiva fa nascere nella mente del pubblico pensieri nuovi o assopiti e pertanto merita assolutamente la visione, o meglio, l’esperienza, essendone lo spettatore parte attiva.