In scena per la prima volta alla Scala, il metamelodramma comico del compositore boemo prediletto dall’imperatore Giuseppe II parlava con efficacia ai suoi contemporanei. Molto meno comunica agli spettatori odierni. La materia musicale è esile e le invenzioni non sempre decollano
L’impresario che mette in scena un’opera seria ne L’opera seria di Florian Leopold Gassmann, compositore prediletto dall’imperatore Giuseppe II d’Austria, ha il destino scritto nel nome: Fallito. Le rime che possono scorrere dalla penna del poeta Delirio, librettista dell’opera, sembra già di leggerle. La musica di cui è capace il talento del maestro di cappella Sospiro non facciamo fatica a intuirla. Il primo musico, con voce di tenore, si chiama Ritornello. Il soprano che fa la primadonna capricciosa è Stonatrilla, sintesi di ogni peccato del belcanto. Il secondo soprano dell’opera, Smorfiosa, incarna l’altra metà dei vezzi di una diva: torti subìti, malanni inventati, un lamento continuo. Il secondo uomo del cast è un soprano, Porporina, amichetta del compositore, quella che si fa strada con tutto quel che la natura le ha dato. Il “maître de ballet” che aggancia l’impresario per vendergli la sua compagnia di danza ha nome Passagallo; insomma, una passacaglia (danza di origine spagnola) con la cresta. E come farsi mancare le madri di Stonatrilla, Smorfiosa e Porporina? Tutte le primedonne si portavano appresso, insieme al “mecenate”, le guardiane di famiglia, insopportabili quanto e più di loro; nell’Opera seria di Gassmann: Bragherona, Befana e Caverna, tutte voci maschili di tenore e controtenore, come tradizione buffa da Monteverdi in avanti.

Una così bella compagnia di paradossi, che cosa concorre a cantare in questa commedia di metateatro andata in scena a Vienna nel 1769, a Firenze nel 1771, ora per la prima volta al Teatro alla Scala il 29 marzo e tra poco al MusikTheater an der Wien? Appunto un’opera di secondo grado, in tutti i sensi, in cui si tormenta fino al collasso quel microcosmo sociale che prende vita e morte ogni volta che si fa teatro.
Nel primo atto si consumano i preliminari in cui l’impresario, il librettista, il musicista e i cantanti si accordano e soprattutto si scordano per stabilire quel che va e soprattutto non va nei costumi, nelle parole e nella musica di un’opera seria dal titolo Oranzebe, storia senza senso di un Imperatore del Mogol (come il “poeta” di Lucio Battisti, coincidenza), in cui tutti si metteranno a rischio.
Il secondo atto cerca di far girare il congegno decisivo, per il successo e l’insuccesso dell’opera, delle prove; e qui la temperatura sale. Il terzo atto celebra finalmente il debutto dell’opera, il cui esito è già scritto: la stucchevole convenzionalità di libretto e musica, la ridicola drammaturgia (parola grossa) della pièce, la sventurata evoluzione della recita (alla Scala esaltata dal crollo, vero, delle scene), fanno correre Oranzebe verso il fiasco, la fuga dell’impresario Fallito, il pianto delle primedonne e loro madri, lo sconforto di una compagnia che, ai fischi, aggiunge lo scorno di restare senza il becco di un quattrino. Soluzione? Mettiamoci insieme, noi artisti, per cercare fortuna in un’altra città dove il pubblico non sia così crudele. Perché, in fondo, l’Opera come genere è così: speranza delle genti, che la fanno e l’ascoltano, fino ai nostri giorni. Mai morta anche quando lo sembra.
L’opera seria di Florian Leopold Gassmann, compositore boemo che si fece le ossa (e la carne) nella capitale italiana del teatro, Venezia, prima di occupare a Vienna il posto di Kapellmeister poi toccato al suo allievo di talento, Antonio Salieri da Legnago, aveva scopo e indirizzi ben chiari. Lo scrive nel prologo il librettista (italiano ovviamente) Ranieri de’ Calzabigi: mettere in ridicolo alcuni per educarne cento. Ovvero i “maestri di cappella” (leggi compositori) che hanno “abbandonato la semplice, maestosa e divina musica”, per introdurre quella “snervata, stiracchiata e pettegola”; “quegl’insulsi rimatori che spacciandosi per poeti drammatici, o copiando con impudenza, o imitando senza discernimento inondano di tante mostruose produzioni i nostri teatri; quei virtuosi di canto e di ballo che, capricciosi, invidiosi e qualche volta insolenti, cagionano tante inquietudini agli impresari”. Per ciascuno di loro abbiamo a portata di mano le traduzioni attuali. Insomma, L’opera seria di Gassmann tira molto verso i tanti vaffa alla mediocrità che lanciamo ogni giorno con gradi e indirizzi diversi a seconda della nostra attrezzatura critica e mentale.

Per dare vita oggi a questa commedia buffa di 255 anni fa, la Scala ha messo insieme gli ingredienti che rispondevano ai requisiti: per lo spettacolo Laurent Pelly, regista francese brillante, intelligente, arguto, di cui poco o nulla di banale si è mai visto; per la musica Christophe Rousset, clavicembalista ammirevole (Bach, Couperin, Rameau), scopritore di rarità, direttore specializzato in antico e barocco, da Monteverdi a Lully al classicismo, che ha messo in buca un’orchestra “filologica” sistemando nelle prime parti alcuni musicisti del suo specializzatissimo ensemble Les Talents Lyriques, cucendo insieme a 25 volonterosi della Scala una formazione di profilo adeguato e pressoché inedito. Per il canto, dodici voci sostanzialmente “giuste” per i ruoli: Pietro Spagnoli, ottimo Impresario (l’unico che abbia già cantato l’opera tre volte); Mattia Olivieri perfetto nella parte di Delirio, Giovanni Sala come Sospiro, Josh Lovell per le agilità di Ritornello, Julie Fuchs come Stonatrilla, Andrea Carroll (Smorfiosa) e Serena Gamberoni (Porporina).
Nelle scene di surreale biancazzurro (Massimo Troncanetti), coi costumi di svolazzante fantasia di Pelly e le luci di Marco Giusti, lo spettacolo cresce più svelto e coinvolgente dal secondo al terzo atto. Non spiace l’incalzante e grottesco gioco di servi di scena che s’infilano tra i cantattori per movimentare soprattutto le parti più inerti della trama (molte). Piacciono le gag dell’atto secondo: specie il duetto fra librettista e primo uomo (Ritornello che fa lo scemo, non riesce a leggere le battute e storpia Scilla in Sicilia). Strappano finalmente qualche risata le divertenti coreografie di Lionel Hoche e i crolli fragorosi dell’atto terzo.

Insomma tutto bene? Purtroppo no: alla fine il pubblico ride e si diverte, applaude tutto e tutti, ma l’intero primo atto scorre via senza un battere di mani. É solo l’avviso di ciò che, nella somma algebrica conclusiva, diventerà consapevolezza di molti se non tutti: la materia, intesa come musica, scrittura, capacità di coinvolgere, è esile. Il libretto di Calzabigi, che conosceva bene la parola scenica e il senso del buffo, serve a Gassmann una buona pista di decollo. Ma le invenzioni rimangono a terra o volano basse. Il tocco magico del genio (Pergolesi e i napoletani, Mozart, poi Donizetti, Rossini e così via) rulla su un’altra pista. I colpi di musica sono a macchia di leopardo. Passa troppo tempo tra un buon momento e l’altro.
Sulla carta, L’opera seria di Gassmann-Calzabigi era una scelta allettante. I chiamati a farla rivivere si impegnano con qualità e dedizione, ma in un’opera che ai contemporanei parlava direttamente perché tutti riconoscevano al primo colpo i modelli citati e svoltati in ridicolo, al pubblico di oggi diventa oggetto di una lettura di secondo e forse terzo grado. Che inceppa l’inesorabile meccanismo della Comunicazione.
Foto: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala