L’ultima opera della stagione scaligera ha l’impronta di un terzetto di tutto rispetto: Martone, Gamba, Palli. E si vede. Un’idea forte in parte mutuata dalla pellicola del regista coreano Bong Joon-ho dà nuovi contenuti al dramma verdiano e accende il dibattito in sala
Rigoletto viene raccontata come l’opera della deformità. La gobba che affligge il protagonista, buffone alla corte del Duca di Mantova, siamo stati sempre invitati a considerarla causa prima e forse unica di tutti i suoi mali. Che sono: servire da vigliacco un padrone che lo protegge anche quando umilia altri servi come lui; nascondere senza successo una figlia per proteggerla da una violenza che puntualmente subirà; sopportare l’affronto del suo rapimento, da parte dei cortigiani vil razza dannata, che se la sono goduta a ordirlo, il rapimento; commissionare l’assassinio del seduttore/stupratore per ritrovarsi infine, in una notte di tempesta, con il corpo in fin di vita della figlia, pugnalata al posto dell’uomo per una congiura delle cose e soprattutto per il sacrificio di lei, innamorata senza rimedio di chi l’ha ingannata e le ha fatto violenza, come ogni giorno vediamo in infinite storie di ordinaria crudeltà. La gobba di Rigoletto sarebbe anche il giusto motivo della nostra compassione per l’infelice vittima della “difformità”, dell’arroganza dei potenti e dell’odio sociale cinque secoli prima dei social.
Dunque, uno spettacolo in cui Rigoletto non fosse deforme sarebbe un tradimento di Verdi e del libretto che Francesco Maria Piave trasse da Le roi s’amuse di Victor Hugo? Non è così elementare, Watson. Lo vediamo nello spettacolo che da lunedì 20 tiene cartellone alla Scala, ultima opera prima della pausa d’estate.
La prima scena è un interno alto borghese, divani bianchi, due piani con scale e ringhiere di cristallo, qualche busto come citazione antica del classico che non c’è più. La festa da ballo dell’originale è una festa da sballo di oggi, con servizio di polvere bianca. Ragazze in corto sexy flirtano con uomini agée che hanno la grana, nell’appartamento di un ricco che l’ha attrezzato come scannatoio (in un angolo s’intravvede anche il privée per sesso estremo). L’essere catapultati dai potenti rinascimentali ai cafoni di oggi, toglie qualcosa alla nostra comprensione del chi e del cosa, in un’opera datata 1850-51? Io direi che aggiunge, anzi svela.
Il secondo quadro appare con la rotazione della scena d’élite nel suo esatto contrario: miserabile suburbio nel quale, attraverso un portone scorrevole, le ragazze della prima scena vengono sospinte nel lato oscuro della vita. Via gli stivali e le scarpe col tacco, via i tubini neri, via le provocazioni, qui ci si spoglia delle maschere imposte dalla maledizione di esserci e di arrivare; ci si lava le ascelle e i piedi in un vecchio lavandino fatiscente, s’infilano magliette stinte e malinconiche pantofole; si fuma, ci si sdraia sconfitte accanto a poveri sventurati che si arrangiano per sopravvivere; una ragazza va anche in crisi di nervi, o di astinenza, su un letto sfatto. Qui la figlia segreta di Rigoletto, Gilda, condivide con una manica di sconfitti lo spazio fatiscente della sua inutile segregazione.
Rigoletto non è deforme, è solo un uomo tormentato che, come diceva un grande direttore verdiano (cito Angelo Foletto) “la gobba ce l’ha dentro”, verità che Mario Martone fa sua ed esalta nel nuovo spettacolo. Rigoletto non è una vittima innocente: serve un potente che adula; lo consiglia perfino di rapire la donna sposata di cui il Conte ha voglia, di esiliare o anche far fuori il marito; irride un padre che chiede giustizia per la figlia stuprata dal signore e padrone, prefigurando quel che lo stesso Rigoletto subirà, meritando tutta la maledizione che il vecchio (Monterone) gli incolla alla schiena (dritta o non dritta) fino alla fine dell’opera.
Martone non sbaglia: è davvero necessario che Rigoletto esibisca anche fuori la deformità che ha dentro e che l’accomuna a chi lo circonda e lo domina?
Margherita Palli, meravigliosa scenografa che combina la sintesi alla precisione, ha progettato una scena che collega due realtà, l’alto e il basso, e alterna due mondi, ricchezza esibita e miseria subìta, che non vivono mai l’uno senza l’altro, semmai si occultano, a piacere e convenienza del Potere (il richiamo al film Parasite del regista coreano Bong Joon-ho non è casuale). L’impianto scenico è la proiezione plastica dell’idea centrale della regia. Ursula Patzak segue con costumi “normali” il piano di trasferimento alle realtà che conosciamo, grazie all’affioramento delle quali il Rigoletto di Verdi ci si schianta addosso e si fa ripensare.
Nella manica resta un finale a sorpresa. Martone osa un pur annunciato affondo etico-politico che alla prima ha scatenato i buuh offesi di una parte del loggione: mentre nella parte “povera” del mondo Rigoletto stringe fra le braccia Gilda morente, una mezza rotazione della parte ricca ci fa assistere alla consumazione della vendetta del popolo. I potenti, i villani rifatti vengono pugnalati a morte durante l’ennesimo festino, macchiando di sangue l’elegante teatro degli sballi e degli sballati che, nell’opera di Verdi, rimangono in fondo premiati o comunque indenni nella loro arroganza.
Giusto? Forse. Plausibile? Sì. Opportuno? L’unica osservazione che mi sento di fare è che questo gesto strattona l’attenzione dal clima che la musica colora nel duetto finale; triste, spossato, accorato.
La compagnia di canto non è un’assoluta felicità per tutte le orecchie. Il baritono che dà carne abbondante a Rigoletto, Amartuvshin Enkhbat, ha materia vocale enorme, fiato e respiro potenti, ma accenti non precisi e fraseggio non granché variato. Piero Pretti, al contrario, ha la parola in bocca, ma torna al Duca di Mantova, ruolo cantato alla Scala nel 2012 e nel 2016, con una voce di tenore ch’è il ricordo di un tempo. Infine, dopo che in “La donna è mobile” era stato promesso il Si naturale scritto da Verdi come prima intenzione, Pretti lancia un do sofferente che appartiene alla tradizione esecutiva ma che, in fondo, a questa idea di spettacolo non si addice.
Nadine Sierra ha raccolto il successo più esaltato di un pubblico da prima della crisi, fitto di stranieri e anche molto, molto generoso. È stata Gilda tante volte nella sua carriera, è bella, ha presenza scenica, agisce bene, Nadine Sierra, ma la voce oggi luccica di metallo, che non è il trasmettitore ideale per l’emozione. Finisce così che, nella compagnia di canto, faccia molto bella figura lo Sparafucile di Gianluca Buratto.
Michele Gamba, giovane direttore che ha idee, sensibilità e intelligenza che lo porteranno lontano, mantiene la promessa di rispettare anche in finezza e senso cameristico la scrittura di Verdi, fascinosamente leggera come in non molte altre opere. È solo discontinuo nel legare i “gradi” della musica e della drammaturgia: conquisterà coerenza nel corso delle recite.
Era annunciato “per discutere” questo Rigoletto, e farà discutere. Ma non per la sua idea centrale.
Foto di Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala