Con Love Lies Bleeding, all’Elfo Puccini fino a domenica, arriva per la prima volta sulla scena italiana, in un lavoro affascinante e articolato, un testo teatrale di Don De Lillo, in cui la compagnia Phoebe Zeitgeist parte dal confronto etico sul fine vita per raccontare le possibilità dell’umano e della scena
Ci sono occasioni, a teatro, e sono spessp tra le più interessanti, in cui il realismo è soltanto un pretesto: è il caso di Love Lies Bleeding, in scena al Teatro Elfo Puccini fino a domenica 16, dove è solo un’angolazione dello sguardo il dilemma etico che circonda un land artist, Alex Maklin, ridotto dopo il secondo ictus ad uno stato vegetativo cronico intorno al quale sono chiamati a prendere una decisione il figlio Sean, erede con conti – tutti emotivi – ancora da saldare con un padre più figura che relazione, Lia, ultima moglie bambina, devota e immersa nel sacro di una vita impossibile sia per lui che, soprattutto, per sè, sia per Toinette, antica moglie/amante di ritorno, con l’estetica e le idiosincrasie di una donna fatale intellettuale e colta che pare venire direttamente dagli anni Ottanta, costretta a una pausa in mezzo al nulla dalla sua paradigmatica conquista della New York intellettuale. E del resto anche lo stesso artista è una figura, un fantoccio di gesso, la cui vita (possibile o mancata) si evoca nella luce che si accende improvvisa nel taglio degli occhi, mentre dal passato emergono frammenti di ricordi della vita che è stata ponendo su un corpo vivo la stessa maschera, a un tempo prigione e camera dell’eco.
Un passato che da tempo flirta con la morte e cerca e sfugge l’amore che ad essa passa spesso inconsciamente vicino, come un cadavere in metropolitana mentre un padre legge il giornale, e che ha i toni profondi e raffinatamente letterari di Don DeLillo, che si avventura nella scrittura per il teatro come lo farebbe coi brani di un romanzo. A vivificarne e a movimentarne l’eleganza di pensa la regia di Giuseppe Isgrò, che fa vivere i suoi personaggi in uno spazio modulare variamente ricomposto, ne fa corpi che si dibattono e cercano – spesso inutilmente – requie intorno a un punto inevitabilmente fisso come il corpo inerte composto da Giovanni De Francesco che gli costruisce intorno anche l’ambiente.
Nel lavoro della compagnia Phoebe Zeitgeist c’è, senz’altro, la riflessione sul fine vita e sul vuoto che l’assenza di una possibilità di decidere per se stessi lasci nella possibilità o nell’obbligo degli altri di sostituirsi a noi per decidere fino a quale punto avremmo o meno considerato ancora la vita tale, ma è un tema che si pone come contraddizione, senza la pretesa di offrire una – ancorchè parziale – risposta al dilemma. Ma c’è, soprattutto, il segno che questo confine lascia su chi resta. La rete di legami e di catene cui costringe prendersi cura l’uno dell’altro, non solo quando uno dei due si trovi al di là della coscienza. Da qui, sorgono fragilità ed egoismi, ossessioni e intimi irrisolti, che sembrano quasi prendere a prestito il continuo ritornare di De Lillo, in molti suoi lavori, alla prossimità della morte: quello spazio, quando una decisione si è presa e si cerca la forza di attuarla (o le competenze, o affronta lo scarto di un’incertezza) diviene allora quello per dirsi l’indicibile, sia di un figlio o di un amore scomposto e assoluto, nella speranza forse che i lampi di luce a cui si può solo affidare la lettura di un corpo altrimenti inerte restituiscano qualcosa che non sia l’evocazione di ricordi.
Segnati, a loro volta, in un continuo frammentarsi dei piani temporali. che ne fa una successione di quadri, da una scelta musicale che, pescando da Cohen e dai REM basta da sola a tracciare l’ambientazione nordamericane, in quelle amplissime distese di vuoto e di rocce in cui l’artista cerca uno specchio alla propria solitudine e che cercherà – inutilmente – di sagomare perchè vi abitino i suoi sogni. Un Immaginario di cui, del resto, la compagnia sfrutta tutte le potenzialità, giocando – pur in una sostanziale fedeltà a una messa in scena di prosa, distante da molti dei lavori precedenti della compagnia – con una vivida e originale commistione di linguaggi, che conservando la chiarezza dello sviluppo si prende il compito di attraversare le possibilità offerte dal teatro contemporaneo, mettendo in scena le reti di legami e i non detti in un gioco di ombre e d’immagini proiettate che arricchiscono la messa in scena di simboli ed evocazioni senza appesantirla. Senza che manchino i suoni violenti e gli scarti di cui la compagnia ha fatto una cifra stilistica.
A permettere a tutta questa complessa e studiatissima architettura narrativa di funzionare c’è un convincente Daniele Fedeli e due attrici, Francesca Frigoli e Liliana Benini, rispettivamente terza e quarta moglie, che si muovono lucidamente tra grottesco e disperato, egoismo e devozione, letterario ed ingenuo. Ancora una volta, la realtà è soltanto una possibilità, per mettere in scena la complessità umana, a volte vendetta e a volte atto d’amore viscerale. E le molte lingue che il teatro ha per raccontarne tutte le sfumature.
Foto: Luca Del Pia