Koji Fukada dirige una bravissima protagonista, Fumino Kimura, in un complesso triangolo familiare in bilico tra un presente in crisi e un passato che ritorna. Un dramma domestico rimette in gioco la vita e il futuro di due uomini e una donna, il cui percorso di crescita e coscienza attraversa continue svolte e scelte da affrontare. Un film, passato in questi giorni alla Mostra di Venezia, in qualche modo “nato” da una canzone e che nella musica e nella fotografia trova due straordinari punti di forza
Non è certo una gran dichiarazione di stima e di affetto verso il genere maschile quella che il 42enne regista giapponese Koji Fukada, già premiato al Festival di Cannes nel 2016 al Certain Regard per Harmonium, mette in immagini in Love life, film di grandi qualità appena passato alla Mostra di Venezia. Al centro del racconto c’è Taeko (la bravissima Fumino Kimura), che felicemente vive e lavora (come assistente sociale) col giovane sposo Jiro (Kento Nagayama): insieme a loro c’è il piccolo Keita (Tomoro Taguchi), nato dallo sfortunato matrimonio precedente di lei con Park (Atom Sunada), una sorta di buffo dropout che è sparito senza motivi e spiegazioni poco dopo la nascita del piccolo. Ma che in lei ha lasciato un vuoto mai più colmato. L’esistenza già complicata della donna, il cui fresco ménage coniugale sembra in realtà già spento, e in più è complicato dalla malcelata ostilità del suocero che vorrebbe un nipote “suo”, viene sconvolta da una tragedia domestica che finisce per riportare in primo piano, nella vita di tutti, proprio Park. Come in Othello, gioco on line di cui Keita era un giovanissimo campione la “caduta” di un pezzo determina la trasformazione di quelli vicini, nel film l’uscita di scena di un personaggio porta a radicali cambiamenti nel comportamento degli altri.
Park, coreano e povero, senza casa né lavoro e che per giunta non parla, incarnando così una figura di outsider a tutti gli effetti, sembra però l’unico a sfuggire all’insensibilità minimal e razionale della famiglia, il solo a riuscire a scuotere Taeko, a farla piangere, sfogare per il dramma che l’ha colpita. La donna seguirà fino in fondo la tentazione del ritorno al passato, una via che si rivelerà amara e senza futuro. Concluderà questo percorso di autocoscienza, che l’ha certamente fatta crescere, anche emotivamente, con un ritorno a casa che più solitario non potrebbe essere. Ma forse anche questa è solo una tappa della sua esistenza davvero complicata. Taeko resterà forse sempre divisa tra Jiro che vuole proteggerla ma non è capace di guardarla in faccia, e Park che lei sente di dover proteggere, che si esprime con le mani e le espressioni del viso, ma è stato troppo capace di mentire.
“Qualunque sia la distanza tra di noi, niente può impedirmi di amarti”, recita Love Life, il brano di Akiko Yano che ha dato dà il titolo al film, la cui gestazione ha richiesto una ventina d’anni circa. dalla prima idea alla realizzazione: “La canzone parla così bene d’amore e di profonda solitudine da farmi ritenere che sia stata la vera origine di tutto il progetto”, ha spiegato il regista, aggiungendo, “L’ho sentita per la prima volta e ho creduto che quello parole partissero da una donna e fossero rivolte al suo amato. E probabilmente era così. Ma un po’ alla volta le ho anche lette come rivolte da una madre e suo figlio”. C’è anche da aggiungere che certamente l’intero impianto musicale, melodrammaticamente efficacissimo, dialoga con le immagini, le svolte del racconto in modi talmente efficaci da avere pochi raffronti recenti.
La spiegazione più efficace del film la dà, come spesso accade, il regista: “Quando faccio un film, cerco di capire quanto possa essere universale. L’argomento principale di Love Life non è la tristezza di una coppia di fronte a una perdita, ma la solitudine che prova per l’incapacità di condividere il dolore: la tristezza infatti è unica, personale, la solitudine invece è tipica della condizione umana”. Il risultato è un racconto di eleganza e scrittura quasi rohmeriane, nella sua capacità di raccontare presente e passato, nel far giostrare personaggi a volte smarriti nelle loro storie, presi a sberle dal destino e/o dai loro errori, sottoponendoli a una serie di colpi di scena reali e emotivi, a svolte improvvise e radicali nelle loro vite sempre in bilico, provvisorie, anche quando gli assetti sembrano garantiti da scelte ponderate.
Love Life, a tratti in bilico tra dramma e comedy – anche quando la tragedia è in primo piano – è però sicuramente un film sui linguaggi, i modi e i tempi del comunicare tra esseri umani. I protagonisti parlano giapponese e coreano ma si affidano anche alla lingua dei segni, veicolo indispensabile tra Taeko e Park e così ricco di sfumature, coloriture sentimentali. In più hanno un ruolo decisivo i codici della musica popolare e tradizionale, come quelli del gioco da tavola e dei videogiochi online, le immagini evocative dei filmini familiari. Ma su tutte svetta la lingua della luce e delle immagini che Fukada, con il suo ottimo cinematographer Hideo Yamamoto, maneggia con ritmo, precisione, comunicativa straordinari, usando anche con grande originalità la Steadycam. Il suo cinema accarezza i presenti e perfino gli assenti, il passato e il presente, gli spazi e le distanze, reali ed emotive tra tutti. Vediamo ciò che accade e forse, scrutando nelle espressioni dei protagonisti, perfino ciò che si spera, si vorrebbe accadesse.
Love life di Koji Fukada con Fumino Kimura, Kento Nagayama, Atom Sunada, Marika
Yamakawa, Misuzu Kanno, Tamoro Taguchi