“Loveless”, il nuovo film del siberiano Andrey Zvyagintsev (“Il ritorno”, Leone d’oro a Venezia; “Elena”; “Leviathan”, nomination all’Oscar) ha vinto il Premio speciale della giuria a Cannes e correrà per la statuetta al miglior film straniero: è un racconto lucido e senza concessioni, in forma di thriller, sull’aridità umana e la fine dei sentimenti, sepolti dalla corsa al denaro, al lusso, a un’ossessiva affermazione di sé. Boris e Zhenya si odiano e stanno divorziando, ma il loro unico figlio, il 12enne Alyosha, di cui entrambi si vogliono disfare, scompare. La situazione cambia, o forse non così tanto
Solo l’odio e il disprezzo reciproci “scaldano”, se così si può dire, i personaggi di Loveless, dove per il resto domina il gelo morale e umano magistralmente rappresentato dal regista siberiano Andrey Zvyagintsev (53 anni, nato Novosibirsk): con cinque lungometraggi all’attivo in 15 anni scarsi ha vinto tre premi al Festival Cannes (quest’anno quello speciale della Giuria), un Leone d’Oro a Venezia (per Il ritorno, 2003), due London film Festival, e vanta ora la sua seconda candidatura all’Oscar, tre anni dopo Leviathan, che resta forse il suo capolavoro assoluto, vincitore del Golden Globe come miglior film straniero e poi in corsa per la statuetta. L’establishment del cinema russo, non senza forti contrasti interni e accuse di scarso senso nazionale, ha alla fine deciso di schierare Loveless in vista delle nominations 2018, anche perché il film, in uscita in Italia il 6 dicembre, ha registrato un record di vendite in Europa, Asia e America Latina.
Sono stato accusato di non essere un regista russo perché prendo posizioni contro il mio Paese, ma è una totale assurdità: dicevano che avrebbe diviso i votanti per l’Oscar, ma dopo Cannes, le grandi recensioni in Usa e UK e le fantastiche proiezioni a Toronto e Telluride, si sono convinti. E poi la categoria della nazionalità non è tratto distintivo del cinema. Ciò che distingue un regista di qualità è la dimensione universale dei suoi temi, quando cioè le sue opere vengono capite in Russia, in America, ovunque. Se i miei film sono accolti in Occidente significa che riesco a dialogare, che parlo la stessa “lingua” di tanti spettatori di varie nazionalità. Ciò è assai più importante che essere fieri della propria “russicità”. Il mio è un grande paese, con tanta gente, tante storie, e noi le raccontiamo come le vediamo. Loveless non ha avuto finanziamenti statali, l’esperienza di Leviathan è stata troppo problematica. Ma io continuo a fare ciò che ho sempre fatto, guardo avanti, non mi volto indietro, di certo non mi autocensuro.
Tutto chiaro e tutto vero, nelle parole del regista, ma certo questo film non è uno spot sulla felicità nel paese di Putin, un pianeta alieno che pare aver chiuso occhi e cuore in un presente asettico, rancoroso, anaffettivo. Zhenya (una straordinaria Maryana Spivak, i cui reali genitori hanno divorziato quando aveva tre anni, e anche questo non è forse estraneo alla sua grande interpretazione), ha deciso di separarsi da Boris (Aleksey Rozin, mestamente eccellente, al secondo film con Zvyagintsev dopo Elena, 2011): ma non disprezza solo il marito, fin da piccola è in guerra anche con l’oppressiva e reazionaria madre, che si è reclusa in una villetta sperduta fuori Mosca, e dalla nascita non ha mai accettato il 12enne figlio Alyoshha (Matvey Novikov), causa del suo prematuro matrimonio e vera “palla al piede” per ogni scelta successiva di vita. Timido e infelice, il ragazzino è causa e sintomo del fallimento della loro unione: e nonostante sia tutto deciso, la loro separazione è tutt’altro che pacifica, attraversata com’è da risentimenti e recriminazioni.
Entrambi hanno già un’altra relazione, che aspetta solo, come si vedrà nel finale del film, di sfiorire anch’essa per indifferenza e incapacità di amare. Lui diventerà di nuovo padre, lei si accaserà con un uomo ricco e gentile, ma le loro vite future hanno un ostacolo davanti a sé, difficile da superare, il futuro di Alyosha. Il quale fronteggerà tale angosciante situazione scomparendo e sconvolgendo così i progetti di entrambi. Alyosha è stato rapito, ucciso? Indizi sembrano indicarlo, ma non si saprà più nulla, e lui non tornerà mai: in senso spirituale lui è scomparso ancor prima di andar via da casa. Il suo mistero, dopo un “ragionevole” periodo di disperazione dei genitori, lascerà comunque il campo alla vita che continua, di nuovo senza amore, come recita il titolo che riassume l’intera atmosfera del film, nonostante le ripetute promesse di passione e comprensione tra i due e i nuovi partner.
Non c’è perdono, né laico né religioso, nello script di Zvyagintsev, che forse per la prima volta in qualche modo sembra quasi odiare i suoi personaggi, il che al cinema spesso non produce buoni risultati. Non in questo caso: la miseria di Boris, che riguardo al suo disastro familiare è soprattutto terrorizzato da cosa potrebbe pensarne il proprietario della società in cui è impiegato, un ortodosso integralista che non ammette fallimenti coniugali (a una festa aziendale un collega si è presentato con moglie e due figlie “fasulle” per non confessare la sua separazione) fa il paio con l’insopportabile falsità e assenza di sentimenti di Zhenya verso tutti, sepolta com’è nel suo universo fatto di beauty, fitness, salutismo e social network.
Zvyagintsev dice d’aver pensato a una lettura bergmaniana, in stile Scene da un matrimonio, della condizione attuale del proprio Paese, attraverso le vicende di persone comuni, di una nuova generazione parentale che ha perso ogni senso di responsabilità e appartenenza. Alyosha non appartiene a nessuno e lo ricorderà ai suoi genitori uscendo dalle loro vite, e costringendoli a ripensare alle pseudo scelte fatte. Ma ciò non sarà sufficiente per due adulti che lo sono solo in senso anagrafico. Tutto questo mette certo in discussione l’intera società, ma senza per questo giustificare le colpe dei singoli. «Racconto un doloroso divorzio nella “normale” middle class», spiega il regista, «perché è in questa fascia di popolazione che un figlio diventa più facilmente un fardello. Il racconto di Loveless ha un background storico, inizia nell’ottobre del 2012 quando la gente era piena di aspettative in un cambiamento del clima politico, sperava che lo stato li ascoltasse, e finisce nel 2015 con un sentimento di delusione, sfiducia in un cambiamento positivo: l’atmosfera di aggressione e la militarizzazione della società erano diventati tali da portarla a sentirsi circondata solo da nemici. Però in generale direi che i miei ultimi tre miei film sono metafore, tentativi di capire la realtà universale, non uno specifico ambiente sociale, politico».
Il contesto generale, comunque, è adeguato e deprimente. L’apparato della sicurezza interna non funziona (il poliziotto incaricato delle indagini, che è comunque disponibile, chiarisce subito che il bambino non verrà ritrovato a meno che non ritorni da solo) e l’unica speranza è un gruppo di volontari, uomini e donne che senza compenso si impegnano nella ricerca di Alyosha, gli unici veri adulti del film. Nel cinema un po’ plumbeo e carico di simbolismo di Zvyagintsev, l’universo generale è fatto di individui al perenne inseguimento di una rivalsa, un riscatto, una parvenza di successo, un’affermazione personale, un selfie esistenziale. Ogni traccia di umanità è del tutto perduta. Aleksey all’improvviso sparisce ma i genitori, proiettati verso le loro nuove vite, si accorgono che il figlio non è mai tornato a casa solo molte ore dopo. Eppure tutto stava già in quell’immagine del ragazzino che, confondendosi nel buio con le piastrelle del bagno, dopo l’ennesima lite dei suoi prende atto tra le lacrime di essere già, tra le pareti della sua casa, un bambino scomparso. Una immagine purissima, quasi insopportabile, di disturbo psicologico, una sequenza perfetta in cui la fine dell’empatia è lo specchio della corruzione morale di un’intera nazione, che distrugge le sue cellule primarie e fa letteralmente scomparire i propri figli, inghiottiti da un buio esistenziale.
“Loveless è la cruda, misteriosa, terrificante storia di una catastrofe spirituale: un dramma con l’apparente forma di un thriller criminale procedurale. Ha un’intensità ipnotica, un’ambiguità intollerabile, dall’inizio alla fine” ha scritto il Guardian. Il film inizia e finisce, come in un cerchio visivo e narrativo, nel gelo di un fiume scuro, color catrame, sotto la neve, mentre neri alberi allungano i loro rami-artigli dalle sue rive. E in questo scenario, quasi da favola, si aggira una figura classica, l’innocente, Alyosha, vestito di un giubbotto rosso, che abbiamo visto uscire con un sorriso gentile dalla scuola. Il matrimonio fallito dei suoi genitori è già al suo terribile atto finale. Perché coltivare l’amore richiede le giuste condizioni, un terreno adatto nel quale crescere, ma la Russia d’oggi, raccontata da Zvyagintsev e dal suo co-sceneggiatore Oleg Negin, e ripresa con nitore insieme bellissimo e profondo della fotografia di Mikhail Krichman, pare invece ormai irrimediabilmente sterile. E la panoramica che inquadra, quasi alla fine, la collina dove si stanno svolgendo le ricerche del ragazzo, il gioco della luce sulle giacche arancione dei volontari, tra i bagliori dei vapori di sodio, si iscrive in un realismo ambientale e psicologico di rara efficacia. Ma ha anche la distaccata grandezza di una sequenza quasi di fantascienza.