Luchino Gastel racconta lo zio di cui è stato assistente e al quale viene dedicata la scuola di cinema di Milano: la grande famiglia, i grandi film, la grande vita, i grandi (e contraddittori) sentimenti. Aut Caesar aut nullus, il motto che gli si addiceva
«Il mio cavallo lo chiamai Chinacci, come chiamavamo lo zio in famiglia», racconta Luchino Gastel (1949), nipote dell’omonimo Visconti: «Chinacci, Luchinaccio, era il suo soprannome tra di noi, perché ogni tanto era cattivo come una peste». Gastel ha un ricordo molto vivido dello zio regista, quasi un secondo padre che lo tenne a battesimo, e dal quale ereditò non solo il nome e un’evidente somiglianza fisica, ma anche la passione per i cavalli e per il cinema. Fin dalle riprese di Ludwig (1973), Luchino il Piccolo seguì le orme di Luchino il Grande (li chiamavano così già allora) : «Volevo lavorare nel cinema. Glielo dissi a cena, e lui, felice, stava già pensando a tutti i grandi registi suoi amici con cui farmi lavorare, finché, quasi timoroso mi disse: “Anch’io faccio questo mestiere”. Ci abbracciammo e fu l’inizio di un sodalizio».
“Luchino il Grande” (1906-1976), cui viene intitolata giovedì 17 la Scuola di Cinema di Milano, quarant’anni dopo la scomparsa, pare il nome di un re franco: nelle vene di Visconti, d’altra parte, scorreva il sangue di Carlo Magno, di Desiderio, re dei Longobardi, di un paio di re di Francia e altrettanti d’Inghilterra. Più prossimo a noi, quello dei duchi di Milano: aveva un viso molto simile a Filippo Maria, da cui lo separavano «solo venticinque generazioni», dice Gastel con la sicurezza di chi ha sulle spalle una famiglia che ha fatto la storia, per secoli. I Visconti ricevettero Napoleone quando venne a Milano, racconta: «Ospitarono la sua cavalleria nelle loro scuderie e per questo conservarono titoli e privilegi anche sotto il dominio francese». Proprio come ne Il Gattopardo, tutto doveva cambiare perché tutto restasse com’era.
Il sangue nobile si unì, all’altezza della generazione dei genitori di Luchino il Grande, a quello di una famiglia di grandi industriali: la madre Carla era la nipote di Carlo Erba, fondatore della casa chimico-farmaceutica, dove si inventarono le prime compresse, che durante la Grande guerra fecero la fortuna della famiglia. Indicando una foto della nonna Carla, ritratta dai fratelli Lumière, che fa bella mostra nello studio che condivide con il fratello e celebre fotografo Giovanni (qui la sua intervista a Cultweek), Luchino ci spiega che questa era la base di autorità e di autorevolezza che nessuno poteva negare allo zio, qualunque cosa facesse e dovunque fosse.
Il carattere di Luchino fu plasmato anche da un’educazione rigidissima: «I maschi di famiglia venivano costretti a uscire di casa calandosi dalle finestre del primo piano con una fune, a rientrare arrampicandosi con la stessa e a prendere il tram rigorosamente in corsa», racconta Gastel. I giovani Visconti venivano svegliati ogni mattina alle sei, perché prima di andare a scuola dovevano esercitarsi per almeno un’ora nello studio di uno strumento musicale, del francese e dell’inglese.
Il primo in famiglia ad avere una vena creativa era il padre Giuseppe: capocomico di una sua personale compagnia teatrale, in cui mosse i primi passi anche Andreina Pagnani, nonché pittore dilettante, ma allievo di Cesare Tallone, si inventò la GVM, prima linea di profumi maschili in Italia. Ereditato dagli Anguissola il castello di Grazzano, in provincia di Piacenza, lo ristrutturò e vi costruì intorno un borgo dal sapore medievale, «una sorta di Disneyland di allora». Sui muri della Palazzina dell’Istituzione spicca un affresco in cui Giuseppe, attorniato dai sette figli, consegna la chiesa alla Madonna. «Villa Olmo, sul lago di Como, era così grande che c’era una persona addetta solo ad aprire e chiudere le finestre», racconta Luchino junior. Sia lì che a Palazzo Visconti a Milano, Giuseppe fece costruire un teatro, dove rappresentava e interpretava le sue pièces. Là Luchino si affacciò sul palcoscenico, prima come assistente, poi come trovarobe e arredatore, che fu anche il suo primo incarico al Teatro Sociale.
Da casa Erba, a colazione o pranzo, per la parentela con Giulio Ricordi, passavano Verdi, Puccini e i suoi librettisti, D’Annunzio, che nonna Carla finanziava, e gran parte dell’intellighenzia nazionale. Immerso in questo mondo, «Luchino non poteva che pensare che o stavi a quel livello, o non eri nessuno». Aut Caesar aut nullus, era inciso sull’elsa di Cesare Borgia, «un motto che allo zio si addiceva particolarmente». Da bambino leggeva Metastasio e quando, a tredici anni, si esibì per la prima volta al Conservatorio con una sonata da solista, al violoncello, di Benedetto Marcello, in una recensione si scrisse che si sarebbe ancora sentito parlare di lui nel campo dell’arte. Niente di più vero. Nel frattempo, diciottenne, con Corrado Corradi e Ignazio Gardella fondò una piccola azienda tra amici che produceva gioielli per signore, «così, tanto per guadagnar due soldi». Tornato da militare, si dedicò sempre più all’ippica. Si allenava ogni giorno, svegliandosi all’alba e stancandosi al punto che quando i Visconti erano invitati a colazione dal Re, Luchino sgattaiolava via dalla tavola di Vittorio Emanuele III per riposarsi su una delle poltrone di villa Savoia. «Una volta il re lo sorprese mentre dormiva e lo guardò incuriosito, con un misto di invidia e affetto: Luchino, accortosi della sua presenza, aprì un occhio. Non sapendo se saltar su e scusarsi o se far finta di niente, dopo un attimo di esitazione, lo richiuse». Per i suoi cavalli fece costruire a San Siro delle scuderie modernissime, all’inglese, e primeggiò come allevatore e allenatore: «Era l’unico temuto da Federico Tesio». E furono i cavalli a portarlo a Parigi nel 1934.
«Parigi era allora il centro del mondo». Era da poco terminata la seconda stagione dei balletti russi, Picasso aveva dipinto il sipario per Parade e Jean Cocteau scriveva Mythologie con le litografie di De Chirico. A Parigi Luchino iniziò un flirt con Coco Chanel e tramite lei conobbe Jean Renoir. Era lui l’uomo dai capelli rossi che avrebbe incontrato sui grands boulevards e che – come aveva predetto una chiromante – gli avrebbe cambiato la vita. Stava allora girando Toni. Luchino partecipò marginalmente alle riprese finché, nel 1936, diventò assistente alla regia e costumista per Une partie de campagne. «Ha provato a fare qualsiasi cosa, dall’elettricista al macchinista, per conoscere il mestiere di tutti. Diceva che era la strada migliore». Gli altri assistenti di Renoir erano Jacques Becker, Yves Allégret e Henri Cartier-Bresson. Ma a Visconti Renoir diede il copione di Palude – poi rinominato Ossessione – che gli era arrivato da James Cain. Visconti lo ambientò nella bassa padana e scelse interpreti italiani, sperando che Cain non si accorgesse dell’appropriazione indebita. «Invece l’hanno beccato, e per tutta la vita ha dovuto pagargli i diritti!».
Il suo carattere era questo: era un uomo che vedeva la vita in grande e si sentiva superiore alle convenzioni, forse anche alle leggi. Persino quelle naturali. «Come quando a marzo aspettavamo la neve durante le riprese di Ludwig. Erano quarant’anni che a Bad Ischl non nevicava in quel periodo e lui tenne ferma una troupe di 200 persone per un’intera settimana pur di girare una scena tra Berger e la Schneider in mezzo alla neve vera». Dopo una settimana quella neve arrivò: «Gli elementi bisogna dominarli, non farsi dominare», ci disse. Convinto di essere protetto dagli dei e di meritarselo, era a volte ai limiti della follia». L’ultimo pensiero del regista, del resto, era per la produzione, cui aveva segretamente iniziato a fare la guerra: «L’importante era fare il film, e farlo come lo voleva lui». I soldi, i contratti e le mediazioni borghesi non lo riguardavano, anche nell’amministrazione del proprio denaro. Andava da Pozzi, il Gucci di allora, e comprava trenta paia di calze, dieci golf di cachemire, quaranta cravatte e metteva tutto sul conto, «che fosse per lui non avrebbe nemmeno pagato. Doveva essere già un onore averlo ricevuto nel proprio negozio», racconta divertito il nipote. Non conosceva mezze misure: all’estero girava tra antiquari a comprare pezzi d’art nouveau con un fascio di banconote, «e faceva caricare tutto sui camion della produzione…». Ma poi, per saldare i debiti, occorreva vendere case e palazzi, quando ancora i Visconti a Milano possedevano vie intere.
«Sicuramente spendeva più di quanto guadagnasse». E per gli affetti non badava a spese. Come premio di maturità a Gastel regalò una macchina: gliela fece trovare fuori dall’aeroporto, al ritorno da un viaggio in Messico. Amava il suo ruolo di padrino per Luchino jr., anche se non fu l’unico figlioccio: non tutti sanno che tenne a battesimo anche Miguel Bosé. «Per me fu come un secondo padre, cui riconoscevo la mancanza di un figlio». Quando lavorava alla Scala e passava la notte nella casa dei Gastel, a Cernobbio, Visconti entrava nelle stanze dei nipoti per guardarli dormire: “Come si imparano presto le dolci abitudini”, scriveva poi, nei giorni successivi, alla sorella. Anche con gli attori aveva un rapporto quasi filiale: «Aveva sempre bisogno di avere qualcuno vicino. Durante le riprese dei suoi film, la sera dovevamo stare tutti nella sua suite, a guardare la tv con lui: attori, attrici, assistenti. Dopo un po’ si appisolava, ma se qualcuno provava ad allontanarsi e lui lo beccava…». Luchino, come lo descrisse Eduardo de Filippo, era un misto di tenerezza e crudeltà: «come del resto i suoi film».
C’era un malcelato bisogno di tenerezza in Visconti, e chissà che dipendesse dalla traumatica separazione di sua madre Carla da suo padre Giuseppe, nella Milano aristocratica degli anni ’30. “Non giudicatemi senza sapere” scrisse la mamma ai sette figli, che soffrirono molto e si divisero, prendendo le parti dell’uno o dell’altro genitore. Le madri, i rapporti complessi tra fratelli e sorelle nei film di Visconti vengono tutti da lì. «L’unità della famiglia era spezzata», e questo lasciò per sempre un segno in Luchino. Non dimostrava debolezze, se non negli affetti, e lo disse bene Antonioni, che con lui aveva lavorato. La sua fragilità nei sentimenti non finiva mai sul set e se aveva un dubbio, non lo mostrava. «Sapeva essere spiritoso, ma anche ironico, cattivello e molto iroso: un tremendo scorpione, vendicativo e geloso». Era capace di licenziare tutti in tronco, salvo poi far finta di dimenticarsene dopo pochi giorni. «Gli operai sparivano tra i ponteggi di Cinecittà e poi riapparivano quando gli era passata». Questo lato dello zio, Luchino il Piccolo, prima di raggiungerlo sul set, non lo conosceva. «Dopo una sfuriata, però, mi faceva l’occhiolino, come a dire che non era arrabbiato sul serio, salvo quando lo interruppi a tavola. Quella volta diventò paonazzo. Era furente, davvero».
Con gli attori aveva un rapporto tutto particolare: a volte li sottoponeva a estenuanti prove fisiche, dal piangere allo strisciare. Durante le riprese di Ludwig costrinse un attore a nuotare nudo in un lago gelato, «finché la scena non venne perfettamente: Giorgio Ferrara e io dovevamo asciugarlo ogni volta. Era viola». Poco prima aveva insultato anche Romy Schneider, non contento del suo portamento da amazzone. «Forse aveva qualcos’altro da rimproverarle. Per la rabbia lei strinse così tanto un bicchiere che lo ruppe e io la fermai appena in tempo, prima che si tagliasse. Le riprese di Ludwig si fermarono di nuovo, finché lo zio, una settimana dopo, andò a bussare alla sua porta». Si chiusero in camera per un’ora e più, e lui trovò il modo di farsi perdonare. Con gli attori era geloso e possessivo: quando la Callas andò con il suo protegé Franco Zeffirelli a Covent Garden, si aprì una ferita che non si risanò più. Con Giovanni Testori, che aveva scritto L’Arialda, il rapporto era tormentato. Prima furono grandi amici, «ma poi diventò un disastro». Chissà cosa ci fu all’origine del dissidio. Anche con Fellini non si capivano, al punto che Luchino disse che La Dolce Vita sembrava girato con il punto di vista sull’aristocrazia romana che poteva avere una cameriera. Poi, tanti anni dopo, a Mosca, si riconciliarono e divennero amici, avendo ognuno grande stima dell’altro.
Anche con gli amici sapeva essere tremendo: architettava scherzi terribili, studiava pranzi in cui far incontrare i due litiganti, perché lui — il terzo — se la godesse. «Ma poi li coccolava, soprattutto gli attori: ogni anno andavano tutti in fila, con lui in testa, da Bulgari e ognuno comprava quel che voleva a spese del regista». Voleva tenerseli stretti, capace di trovare delle perle rare, anticipare tempi e mode a venire. La Callas, per come la conosciamo, l’aveva inventata lui: «Era troppo grassa. La fece dimagrire e le insegnò come muoversi e camminare per essere bella ed elegante». E ne fece un’attrice. Anche Truffaut diceva che una delle più grandi virtù di Visconti era la capacità di rivelare la bellezza delle donne. E Marlon Brando? Senso avrebbe dovuto avere protagonisti lui e la Bergman. «Ci sono le foto di Marlon a vent’anni mentre fa le prove di costume nel giardino di casa dello zio – doveva essere il ’52 o il ’53 – quando non era ancora il divo che sarebbe diventato con Fronte del porto (1954)». Portò Mastroianni e Gassman in teatro, dove Marcello, che era così emozionato da aver paura di dimenticare le battute, «correva continuamente a fare pipì, finché Gassman gli disse di star tranquillo, che sapeva anche le sue e nel caso gliele avrebbe suggerite». E che dire dell’occhio sui testi treatrali? Mentre negli Stati Uniti c’era il maccartismo, Visconti portava in Italia Arthur Miller, con Morte di un commesso viaggiatore o Uno sguardo dal ponte, ed anche Tennessee Williams con Lo zoo di vetro e Un tram che si chiama desiderio.
Il genio anticipatore, la capacità di rompere gli schemi si applicava anche alla politica. Se anche da ragazzino, per aver difeso Hitler, si prese due schiaffi a tavola dal padre e fu spedito in camera sua senza pranzo, negli anni ‘30, tramite Renoir, si avvicinò al Fronte Popolare e, dopo la guerra, scrisse su l’Unità il famoso articolo “Perché voterò per il Partito Comunista”. Divenne grande amico di Togliatti «e infatti c’è anche lui ritratto ne I funerali di Togliatti di Guttuso, insieme alla sorella Uberta. Erano amici dai tempi di La terra trema, di cui Guttuso aveva fatto i bozzetti. Ricordo che lo zio aveva anche dei suoi quadri a olio a casa sua in via Salaria», racconta ancora Gastel.
In famiglia non faceva mistero delle sue convinzioni: «parlava di cultura con tutti noi». Per niente della sua presunta omosessualità: «In casa non aveva mai dato adito a pensieri di quel tipo. Delle sue preferenze non faceva parola né mostra con nessuno». La sua – dice invece Giovanni Gastel, il fratello di Luchino – era un’omosessualità vissuta con forza ed eleganza. Due volte stava per andare all’altare, con due donne, e forse si pentì di non averlo fatto. «Si fosse sposato – scherza Luchino – la sua vita sarebbe stata come l’episodio Il Lavoro di Boccaccio ’70», dove Pupe, moglie di un impenitente fedifrago, decide di esigere dal marito il pagamento delle sue prestazioni sessuali. E non sarà un caso se Pupe era il nome della sua fidanzata di allora (Pupe Windisch Gratz). La seconda opportunità capitò con la contessa Nicky Arrivabene. Negli anni ’30 andarono insieme al fidanzamento di Umberto di Savoia: «Alla Torre del Sestriere fecero compagnia ai futuri sposi». Lei, alla fine, sposò suo fratello Edoardo. Anche la Callas impazziva per lui, e ogni volta che Meneghini, suo marito, li vedeva insieme, iniziava a imprecare “merda, merda, merda”. Del resto, lei era capace di uscire in abiti di scena dalla Scala per andare al Biffi-Scala a cercare il suo Luchino perché la riaccompagnasse al proscenio. «Voleva sempre sentire il suo profumo, di Penhaligon’s, accanto a lei. Era innamorata persa». Certo, gli piacevano sia gli uomini che le donne, «purché fossero belli e interessanti. Soprattutto, non poteva farsi mancare niente dal punto di vista emotivo. I sentimenti erano il centro della sua vita».
Sapeva che i suoi comportamenti, come anche i suoi film a volte, potevano scandalizzare, ma non se ne curava troppo. «In tutto era moralissimo, per gli altri, ma lui, come gli dei, poteva fare tutto quello che voleva, tra due parentesi. Si considerava diverso, unico». A volte gli venivano oscurati i film e lui reagiva «come Napoleone», quando L’Arialda fu censurata dallo stesso giudice che aveva oscurato Rocco e i suoi fratelli (che, denuncia Luchino, la Rai ha recentemente mandato ancora tagliato della famosa scena delle mutande). Ma che coraggio a mettere in scena testi come L’Arialda, nell’Italia democristiana del 1961! E che dire dell’Adamo di Achard? «C’era la gente che si menava tra il pubblico».
Una volta litigò con Sante Barelli, il pittore di scena di Cinecittà. Barelli gli disse: “Senta Visconti, prima o poi dobbiamo morire tutti”. «Lo zio si è girato e gli ha urlato: “Tu, dovrai morire, io mai!”». Ma, benché ne fosse convinto, non era invincibile. Nel 1972 Luchino il Grande e il Piccolo erano in montagna, per le riprese di Ludwig: la notte la temperatura scendeva a -15/-16°C. «Secondo me ha preso un tale freddo che poi, tornato a Roma, è stato male», pensa ancora oggi Luchino. Quando ebbe l’ictus, quello stesso anno, i suoi familiari furono “avvertiti”: in famiglia, dove c’é un certo côté esoterico, ancora non si perdonano di aver male interpretato la medium che aveva predetto che Luchino sarebbe stato male il 26 giugno. In realtà si contò male un segno: fu il 26 di luglio.
Dopo l’ictus, anche sul lavoro rivelò il suo lato più umile: «mi disse, dalla sua sedia a rotelle, di non essere un artista, ma un artigiano del cinema». Quando poi si ruppe una gamba si sentì abbandonato dagli dei superi, suoi pari e non si riprese più. Aveva perso la fede in quel futuro in cui credeva così tanto da poter spremere il passato senza malinconie. Morì in pochi mesi. La fama non farà però morire i suoi film, che sono la sua eredità, il figlio mancato per cui ha tutto speso e si è speso tutto. Da diversi anni si assiste ad una rilettura del Visconti-uomo di cui chi non l’ha conosciuto direttamente vuol fare un santino o un simbolo, un omosessuale decadente ripiegato sulle proprie debolezze. «Al contrario, era un uomo forte e tenace, un vero esempio nella difesa estrema delle sue idee e delle sue scelte di vita, a qualunque costo».
«Come era bravo», disse suo nipote Prandino, con cui aveva litigato furiosamente, vedendolo nel feretro avvolto da un plaid di cachemire rosso. Ecco, la semplice verità: la sua bravura, più di ogni altra cosa, in ogni cosa.