Il 60enne Arnaud Desplechin torna nella sua città natale per un thriller filosofico ispirato a un fatto vero, l’omicidio di un’anziana signora. Roschdy Zem fa un commissario gentile e saggio, che non giudica ma sa far affiorare la verità, Lea Seydoux e Sara Forestier, le vicine di casa, formano un’intrigante coppia in cerca di una via di scampo: ma finiranno davanti alle loro responsabilità
Roubaix, nell’estremo nordest della Francia – il Belgio si vede dalle terrazze delle case – ha quasi 100mila abitanti, molti la conoscono solo per la famosa gara di ciclismo, ed è considerata la città più povera del paese, con oltre un terzo degli abitanti che sopravvive grazie al sussidio minimo dello Stato e il 40% sotto la soglia di povertà. Eppure dove oggi regnano degrado, squallore e violenza, nel 19° e 20° secolo c’era una grande e ricca industria tessile, la chiamavano la Manchester di Francia, e ancora nel 2000 fu nominata dal governo Città dell’Arte e della Storia. E’ anche la città del 60enne Arnaud Desplechin, che aveva girato qui altri film, tra cui l’ottimo I miei giorni più belli (2015), per cui ha vinto un Cesar alla regia. Ora è lui, in Roubaix une lumière, a descriverla impietosamente così, nelle prime sequenze di un film che sembra ambientato in una sorta di Londra di Dickens attualizzata. Di Roubaix è anche l’ispettore Daoud, di origini maghrebine ma così visceralmente legato al suo degradato heimat da non aver mai scelto di andarsene, pur sapendo che il presente e il futuro li trascorrerà tra incendi, stupri, omicidi di vecchie, povere signore. Ha una voce, calma, rassicurante, un’umanità spontanea e gli occhi caldi sono la prima cosa che vediamo di lui, riflessi nello specchietto della sua auto.
Dunque il film mette fin dall’inizio in tavola le carte. Siamo dalle parti di un polar particolare, molto sociale, dove la legge la gestisce chi è solito subirla per pregiudizio etnico, e lo fa con molto riguardo e pietas anche per chi potrebbe essere colpevole, perfino di un delitto efferato. Racconta Desplechin: “Dopo Les fantômes d’Ismaël, un fuoco d’artificio di finzione, avevo bisogno di deporre le armi davanti agli attori e filmare la mia città. Mi sono ricordato di un fatto di cronaca del 2002 (diventato nel 2008 uno sconvolgente documentario di Mosco Boucault per France 3, ndr), che aveva impressionato me e tante altre persone, l’omicidio di un’anziana strangolata da due donne. Così ho costruito una storia che usa veri poliziotti e persone del luogo, insieme ad attori professionisti. E una scrittura che deve molto a Delitto e castigo di Dostoevskij” .
Ma, e qui la struttura noir già vacilla assai, non è fondamentale l’azione poliziesca, e in fondo nemmeno la risoluzione del giallo, l’individuazione del, delle colpevoli in questo caso: conta il percorso che porta a capire, scavando nell’animo di chi finirà per ricostruire (anche di fronte a se stessa) i fatti e le sue responsabilità. E più ancora delle motivazioni, come il degrado della vita delle due giovani donne che c’è, è ovvio che c’entra ma resta in secondo piano, emerge soprattutto, grazie all’intelligenza emotiva del commissario, la presa di coscienza delle proprie colpe, che lo spingerà (e forse noi con lui) a un’empatia, una pietas quasi inevitabili, catartiche per le due assassine. Daoud è mosso da un’imperativo filosofico, portare chiarezza cartesiana, ordine nel caos disperato della vita quotidiana, e nelle menti di Claude e Marie, che parlano degli eventi quasi come se stessero scoprendoli nel momento del loro angoscioso, contraddittorio racconto.
Forse c’è a tratti qualcosa di narcisistico, compiaciuto in questa sorta di prete detective che pare sapere già tutto in anticipo e usa gli interrogatori come puri strumenti per far affiorare confessioni liberatorie per le stesse colpevoli. Desplechin dice d’essersi ispirato al documentarista americano Frederick Wiseman, ma soprattutto al film di Alfred Hitchcock Il ladro (1956), in cui l’ossessione per il realismo aveva portato il regista inglese a girare nei luoghi stessi in cui gli eventi si erano svolti. Passato al Festival di Cannes 2019, scritto insieme a Léa Mysius, Roubaix une Lumière è molto la storia di un poliziotto intuitivo che sa ascoltare e giudica poco, consapevole che la morte non è mai premeditata e che può accadere a tutti di fare una stupidaggine. Daoud ama i cavalli e un suo nipote in carcere che lo rifiuta, probabilmente per la divisa, e di notte vaga insonne per la pericolosa città che nonostante tutto non riesce a lasciare. Camminando forse alla ricerca della prossima luce nell’ombra della verità, della giustizia. Roschdy Zem, protagonista 10 anni fa di Uomini senza legge, sulla rivolta d’Algeria, per questa interpretazione ha ottenuto i Premi Lumière e César.
La francese Léa Seydoux (Claude), che passa da Kechiche (Adele), Woody Allen e Wes Anderson agli 007 di Mendes e Fukunaga (la vedremo nel prossimo No time to die) e la danese Sara Forestier (Marie), un Cesar appena 18enne per La schivata e 6 anni dopo con Le Noms de Gent, formano una coppia assai variegata: una fragile, sottomessa, innamorata dell’altra al punto da mentire per scagionarla assumendo da principio su di sé gran parte delle colpe, l’altra forte, decisa, dominante, pronta a tutto pur di proteggere se stessa e il figlio, che rischia di non vedere a lungo.
“Per la prima e unica volta nella mia vita – dice ancora l’autore – ho solidarizzato con due criminali: ho voluto riconsiderare le parole crude delle vittime e delle colpevoli come la più pura delle poesie. Non volevo chiudere le persone in una sorta di determinismo sociale, nell’equazione poveri uguale criminali. Certo, siamo tutti condizionati dalla posizione sociale, ma il cinema può fotografare una sola cosa, l’anima, quel qualcosa dentro che resiste a tutto. Non cerco spiegazioni sociologiche”.
Proprio nel serrato confronto con le due ragazze e nella ricostruzione del delitto in casa dell’anziana vicina di casa il film raggiunge un emozionante vertice espressivo. Desplechin rovescia il disincanto marlowiano, che pure parte dallo stesso presupposto – un mondo dove il Male è ovunque, ha origini diverse e sta anche dentro di noi – manifestando una genuina fiducia nei rapporti alla pari fra persone che alla pari non sono, e nella forza del dialogo, nelle possibilità che può aprire. Perfino quando si confessa un omicidio. Se qualcosa può salvarci è lo scambio fra persone, senza giudizi.
Roubaix, une lumière, di Arnaud Desplechin, con Roschdy Zem, Lea Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz, Chloé Simoneau