Due nuovi libri (di segno opposto) cercano di fare il punto (l’ennesimo) sulla vita e le opere del Lucio nazionale
A poco più di vent’anni dalla scomparsa, escono due libri di segno opposto su Lucio Battisti, che cercano di (ri)fare il punto sulla sua vicenda artistica e umana. Il primo (Il nostro caro Lucio di Donato Zoppo, Hoepli) ne ripercorre in maniera puntuale vita e carriera mentre il secondo (Emozioni private. Lucio Battisti, una biografia psicologica di Amalia Mancini, Arcana) dà voce, con molti bamboleggiamenti lirici e troppi psicologìsmi da hard discount, all’antica predilezione dei più per la fase iniziale e mediana del Lucio nazionale, quella per intenderci della collaborazione con il “Poeta” Giulio Rapetti in arte Mogol, svalutando con insinuazioni grevi – l’artiglio adunco della moglie Grazia Letizia Veronese, la Yoko Ono de noantri, nella rottura con Mogol – i cinque oggetti sonori non identificati che, dal 1986 al 1994, Battisti appronta con dovizia di strumentazione elettronica e con i testi nonsensical di Pasquale Panella.
Detta la mia predilezione per la biografia di Donato Zoppo, scritta da “persona informata dei fatti” e in grado di contestualizzarli, aggiungerò che la “biografia psicologica” di Amalia Mancini, benché irritante nel suo dilettantismo gossiparo e conservatore, è tutt’altro che inutile, zeppa com’è di documenti (interviste di Battisti e di Mogol, ampi stralci di articoli) inseriti con generosità anche se spesso alla rinfusa nel testo.
Emerge dai due libri, a volte in sincrono e spesso in dissonanza, la statura di un autore e interprete che ha rivoltato come un guanto il cantar leggero del Belpaese, creando il pop italiano come oggi lo conosciamo e come rischia di non essere più dopo l’assalto del rap e della trap – e che il rap fosse “il futuro”, Battisti lo aveva già intuito negli anni Ottanta.
Emerge soprattutto, e soprattutto dalla biografia di Zoppo, un Battisti “normale”, curioso e perfezionista. Un “uomo libero né di destra né di sinistra”, per dirla con le parole di una canzone che Ivano Fossati cucì addosso a Celentano, determinato a farcela e a non ripetersi, deciso soprattutto a non farsi mettere in gabbia, a demolire il suo “ego monumentale” quando arriva in vetta. Ad andare, rubo da De Andrè, “in direzione ostinata e contraria”.
Emerge un artista che “non canta politico”. Ma, fatta piazza pulita una volta per tutte della paccottiglia sloganistica di quegli anni – il Battisti “fascista” e perseguitato: ma Battisti fu preso di mira dall’estremismo idiota e violento di allora né più né meno dei cantautori di sinistra, e questo non scalfì la sua fama e i suoi dischi raggiunsero sempre il primo posto in classifica –, il Battisti “politico” emerge più di una volta, che si dichiari a favore del divorzio o che, accompagnando un disco originale e “terzomondista” come il suo Anima latina del 1974, spieghi che «la musica brasiliana è una delle più vive oggi tra le musiche del mondo: non ha perso la sua funzione che è soprattutto quella di consentire al popolo di esprimersi, di comunicare, di stare insieme, di protestare». Alla faccia del fascista. Un piccolo-borghese provinciale, in definitiva, sia detto per elogiarlo e non per criticarlo, perché dai piccolo-borghesi e dai provinciali è venuta spesso, nel nostro paese, la linfa migliore.
Figlio di un impiegato del dazio e di una casalinga, nato nel 1943 a Poggio Bustone in quel di Rieti, il “burino laziale con il foularino” – la definizione impietosa è di Giorgio Bocca, che era un giornalista immenso ma che di canzonette non capiva una cippa, e per inciso il foulard serviva per coprire una cicatrice alla gola – si diploma perito elettrotecnico e in musica è un autodidatta. Nel senso che gli insegna a suonare la chitarra, quando ha tredici anni, lo “scemo del villaggio”. E completa la formazione facendo la gavetta, dal 1963 al 1966, come chitarrista dei Campioni, il gruppo che accompagnava Tony Dallara e che, guidato da Roby Matano, si mette in proprio battendo night e balere della penisola con un repertorio quanto mai vasto.
Sono gli anni del beat, la seconda timida globalizzazione della nostra musica che si apre, a molti anni di distanza dallo “swing all’italiana”, agli influssi angloamericani recidendo – ma adelante, con juicio – i cordoni ombelicali con il belcanto nazionale. Ma nel repertorio dei Campioni c’è tutto il ballabile e il cantabile di quegli anni, da Malaguena a Non ho l’età, dai languori latini a quelli sanremesi. È quella l’università di Battisti: la formazione di un repertorio, le prime ingenue composizioni. «Scrivevo anche i testi, ma erano un po’ debolini», dirà in seguito lui.
Fin qui, tutto normale: è la gavetta di tanti, in quegli anni. Ma Battisti – è il dato più affascinante che emerge dalla biografia di Zoppo – è sveltissimo a imparare, a qualunque cosa si applichi: Mogol, che conosce e con il quale comincia a collaborare dal 1967, gli dà un testo la sera, e la mattina dopo Battisti se n’è impadronito. Dalla chitarra passa a pianoforte, batteria e tastiere. Entra in studio di registrazione nel 1967, e dopo un mese sarà arrangiatore e produttore (non lo sa quasi nessuno, ma gran parte dei brani di successo dei Dik Dik, da Sognando la California a Senza luce, li ha arrangiati e prodotti quel ragazzetto riccio alle prime armi). Dopo qualche anno (il disco è Amore e non amore del 1971) sarà anche velleitario ma non spregevole direttore d’orchestra.
Nel tempo, applicherà lo stesso ostinato perfezionismo ai campi più disparati: alla matematica – arriverà a un passo dalla laurea in Inghilterra –, all’ astronomia, alla psicanalisi – una sera, negli anni che la vulgata descrive di fuga dal mondo e di isolamento e che sono invece fatti di frequentazioni discrete, a cena, spiegherà a un’amica analista come si imposta una seduta psicoterapica –, all’equitazione e al windsurf, alle lingue e al bricolage – nella sua casa in Brianza, che la solita vulgata dipinge come una “villa bunker” in cui vivrebbe appartato come un Salinger rustego e che è invece un condominio di villette con tanto di portineria centrale, si offre gratuitamente di fare i lavori da elettricista, carpentiere e giardiniere che tanto lo divertono: e aggiusta videocitofoni, fa funzionare le luci che vanno e vengono in giardino, pota alberi e cespugli.
Nei beati anni dell’esordio – che tanto beati poi non sono: c’è una nuova città, Milano, gli esordi stentati, i pochi soldi in tasca, le goffaggini provinciali – Battisti studia, studia, studia: prova alla chitarra nuove composizioni – «Per una che ne incido ne ho trenta nel cassetto» dirà –, ascolta dischi per otto ore al giorno. Più che ascoltarli, li smonta: nota per nota, strumento per strumento. Le sue composizioni nascono così, come un leone – per citare Paul Valéry – fatto di tante pecore assimilate.
E così nasce la nuova grammatica del pop: che amalgama la melodia italiana – una melodia che con lui, noterà Ennio Morricone, diventa “sillabica” – con il folk rock americano, con code strumentali audaci che prima soltanto i Beatles – andate a riascoltarvi l’azzardo assoluto con cui chiude, sull’assolo di batteria di Gianni Dall’Aglio, Non è Francesca –, con il soul, con il rockblues alla Zappelin. Battisti, da questo punto di vista, è “la sintesi”: un artista che studia i linguaggi altrui per costruire una sua “forma” che non sia puramente di derivazione.
Che i successi arrivino, con il senno di poi, è scontato, a partire da Balla Linda (1968), per proseguire con una sequenza vertiginosa e ininterrotta fino a Una donna per amico (1978), ma tanto scontato non era all’inizio dell’avventura, quando la Ricordi che lo ha ingaggiato come autore manda Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik a dissuaderlo dal cantare.
C’è il rapporto con Mogol, che è già paroliere esperto e di successo, certo. Ma non basta. Restano, molti di quei versi che vestono le musiche di Battisti. E che siano diventati nel tempo locuzioni dell’italiano medio (le discese ardite e le risalite, lo scopriremo solo vivendo, ancora tu? ma non dovevamo rivederci più?) la dice lunga sulla loro presa tenace nell’immaginario sentimentale. Resta il fatto che Battisti canta, forse condivendoli e forse no, i tormenti e le fughe, gli appagamenti e le lacerazioni, i tradimenti inferti e subiti all’amata, che sono di Mogol, frutto della sua vita e delle sue esperienze. Con il tempo, gli verrà il sospetto di inscenare la vita di un altro. O di interpretare un fotoromanzo sentimentale.
Provate a riascoltare l’ermetica Don Giovanni che nel 1984, sciolto il sodalizio con Mogol, inaugura quello con Panella e che in definitiva troppo ermetica non è: “Rivesto quello che vuoi/ son l’attaccapanni”. E subito dopo: “Poi penso che t’amo/ no anzi che strazio/ Che ozio nella tournée/ di mai più tornare/ nell’intronata routine/ del cantar leggero/ l’amore sul serio”. Per concludere, a mo’ di suggello: “Sinceramente non tuo”.
Quelle parole, in definitiva – poi ci sono le liti sui soldi, certo – gli andavano strette. Perché, negli anni del sodalizio magico, se Mogol sta fermo nel suo nuovo lessico amoroso, Battisti musicalmente corre. Toglie chitarre e aggiunge tastiere, cambia collaboratori su collaboratori (alla sua corte sono passati i Ribelli e la Pfm, Ivan Graziani e Alberto Radius e Massimo Luca), sperimenta con la musica etnica, con l’fm americano, con la dance e con l’elettronica, nelle prove estreme arriverà a un passo dal trip-hop. Assai simile, in questo, all’altro Lucio, Dalla, che con lui avrebbe voluto collaborare.
Il resto è fatto dall’imprinting e dalle paure dell’uomo normale. Del piccolo-borghese, se volete. Che, raggiunto il successo (e che successo: negli anni d’oro Battisti con Mogol scrive, oltre che per sé, per Mina e Patty Pravo, per Lauzi e Dik Dik, per Equipe 84 e Ribelli, per Formula 3 e Pappalardo) decide che può bastare. Il palco dei concerti gli è sempre stato poco congeniale: smette presto di esibirsi, come prima di lui avevano fatto i Beatles e come in quello stesso periodo farà Mina. Per timidezza? Forse. Ma anche per il solito perfezionismo: cantare con una strumentazione inadeguata, impegnarsi in defatiganti tournée, non è da lui.
Ha fatto soldi quanto basta per non essere prigioniero di quel successo. Pensateci: chi gli rimprovera di non aver continuato a cantare all’infinito Fiori rosa fiori di pesco non è più conformista di lui, che sceglie di distruggere la bella cartolina dell’apparenza, di continuare con l’azzardo elettronico e antisentimentale di Le cose che pensano (“In nessun luogo andai/ per niente ti pensai/ e nulla ti mandai/ per mio ricordo”)? Chi gli rimprovera di essere sparito, di essersi consegnato all’assenza e all’isolamento, non è più angusto di lui, che aveva capito che c’è vita oltre i dischi?