Reduce dall’Oscar 2022 per “Drive my Car” il regista giapponese torna con la sua musicista Eriko Ishibashi, in qualche modo ispiratrice di un complesso racconto di identità umana e coscienza ambientale. In un paesino poco lontano da Tokyo una società di attrazioni turistiche vuole aprire un glamping, un campeggio di lusso che può turbare la vita degli animali e inquinare la riserva d’acqua cui tutti attingono. Il protagonista Takumi e la sua bimba fanno da baluardo a questa imposizione. E il finale, tragico ma aperto, darà un sua, forse ambigua spiegazione al titolo del film, “Il male non esiste”
Ha un fascino, visivo e narrativo, complesso e ambiguo, e un finale in qualche modo aperto, come piace a molti sperimentatori del cinema, almeno da Rashomon e dalla Nouvelle Vague in poi, Il male non esiste, nuovo film del quasi 45enne Ryusuke Hamaguchi, rivelazione 2022 grazie all’Oscar vinto (più altre tre nomination e il Bafta inglese) con Drive my car, ma forse ancor più interessante, a mio personale parere, era il suo precedente Il gioco del destino e della fantasia, Orso d’argento e premio della giuria alla Berlinale dell’anno prima. Questo nuovo lavoro a sua volta si è aggiudicato il Leone d’Argento alla Mostra di Venezia, e il cineasta giapponese non era un debuttante nella rassegna lagunare: c’era già stato come sceneggiatore di Wife of a Spy di Kiyoshi Kurosawa, pure lui Leone d’argento alla migliore regia, nel 2020.
Ci si muove nei complessi territori della riflessione sul nostro rapporto con la natura, del nostro diritto (o no, e soprattutto come) a modificarla, per esempio per motivi economici, e questo nucleo centrale di sapore etico, sociale, ambientale sfocia alla fine anche in un’epilogo che si tinge dei colori nel noir, anche se forse non proprio del delitto. Il film nasce in un certo senso da Drive my car. Dopo la fortunata collaborazione con Hamaguchi per quella colonna sonora, la musicista Eriko Ishibashi, di cui il regista aveva apprezzato anche alcune interpretazioni canore, ha voluto nuovamente lui per realizzare l’apparato visivo di una sua performance live, Gift: dallo sviluppo successivo di questo lavoro, e dalla fascinazione subita dal regista per le location rurali dove è stato realizzato, è nato il film in oggetto. Al centro del quale c’è l’ambiente naturale, la cui complessità è paragonabile a quella della musica, mezzo artistico perfetto per dargli voce. Così il racconto sembra quasi un’ideale partitura, diviso in sequenze dai tempi dilatati che restituiscono anche la temporalità ciclica degli eventi e la bellezza a tratti astratta, simbolica, dei luoghi.
Il male non esiste si apre con dieci minuti di immagini splendide, scandite solo dalla partitura di Ishibashi e dai suoni della natura: il fruscio delle fronde, lo scorrere di un ruscello, il rumore dei ceppi di legno tagliati, il respiro leggermente affannato del protagonista. Il film è ambientato a Mizubiki, un paesino a un paio d’ore da Tokyo, un ecosistema rurale fondato sui cicli naturali, quasi solo sfiorato dalla modernità, dove al dominio dell’uomo sulla natura stessa si sostituisce una coesistenza, pur non sempre pacifica. Tra gli abitanti conosciamo Takumi (l’ottimo Hitoshi Omika) artigiano tuttofare per il quale i boschi e la montagna non hanno segreti, e la sua bambina Hana, otto anni, che in quei boschi ama perdersi. La vita scorre tranquilla finché un’agenzia di business del tempo libero presenta al villaggio il progetto di un glamping (glamourous-camping, campeggio di lusso); dovrà sorgere su un terreno, comprato dalla società, che incrocia la strada percorsa dai cervi per abbeverarsi. Due impiegati impacciati, e presto si scoprirà anche incompetenti, introducono la proposta agli abitanti, alcuni dei quali, tra cui Takumi, sottolineano le criticità, in particolare il fatto che la fossa settica potrebbe contaminare il bacino idrico che scende a valle rendendo inutilizzabile l’acqua che tutto il villaggio, e gli esseri viventi della zona, usano.
C’è un evidente conflitto di interessi ma anche un problema di comprensione reciproca, esposto con forza dialettica dal regista che mostra come il conflitto non si tanto tra le persone ma tra i motivi, pratici e ideologici antitetici. La riunione nel paese non ha un esito favorevole, così Takahasi e la giovane collega Mayuzumi decidono di tentare di convincere Takumi ad aiutarli. i due forse concordano con le perplessità degli abitanti, e sono anche affascinati dal ritmo della vita rurale, ma devono eseguire gli ordini del loro capo, anche perché la richiesta dei finanziamenti postpandemici (Covid) per il progetto è già partita. Ma in sostanza il loro tentativo fallirà, portando il film a un finale forse inaspettatamente violento.
Il rapporto con la natura, quello che oggi chiamiamo ecologia parte nel film dallo sguardo, di Takumi per primo, sul mondo circostante, che può essere più o meno rispettoso a seconda della conoscenza che l’uomo ha del ritmo e delle leggi della natura. Una di queste leggi, ricordata dal sindaco della piccola comunità, è quella per cui quello che si fa a monte ha inevitabilmente delle conseguenze a valle, con il corollario che chi sta a monte ha l’obbligo morale di comportarsi in maniera responsabile. Le scelte che facciamo non riguardano mai solo i singoli, perché siamo parte di un (eco)sistema, e la violenza ci appartiene forse naturalmente, come modalità di relazione. Grandi temi sussurrati in maniera assai libera, a tratti forse un poco ermetica, in un film che resta aperto all’interpretazione legata alla polarizzazioni dialettiche tipiche di Hamaguchi (qui anche sceneggiatore, e montatore con Azusa Yamazaki): quelle tra città e campagna, silenzio e parola, destino e caso, perdita e riscatto, prossimità e distanza. Spesso mediatore o detonatore di queste contrapposizioni è il movimento: una fuga, un viaggio, un’escursione nei boschi.
Nel film, come spesso succede nel cinema di questo autore, la parola soccombe al silenzio. A fare di Hamaguchi un grande regista basterebbe la sua capacità di opporre il linguaggio muto delle cose alla verbosità inconcludente degli uomini, e di seminare indizi onirici e segnali di morte in un solo fotogramma. Come in altri suoi capolavori, ha la capacità di muoversi tra antropologia e metafisica con leggerezza. “Il male non esiste” può sembrare fin dal titolo l’assunto del film, ma vale finché il male non si ritrova a prendere forma, con naturalezza, laddove non si era mai spinto. Finché non viene “chiamato in servizio” dalla volontà di difendere i propri spazi, i propri piccoli. Vale per i cervi attaccati dall’uomo o per Takumi e la sua bambina, o il suo territorio. Il male non esiste ha nel finale una deflagrazione che sprigiona le tensioni e le angosce accumulate. E le immagini di quadri innevati, le carrellate sulle chiome degli alberi, all’inizio come alla fine, sono un invito a smarrirsi, perché secondo la teoria giapponese chi legge l’haiku deve dissolversi in esso come ci si dissolve nella natura, perdersi nelle sue profondità come nel cosmo dove non esistono né basso né alto. Come un haiku anche Il male non esiste ha una forma aperta. E’ un enigma, trasparente.
Il male non esiste, di Ryusuke Hamaguchi, con Hitoshi Omika, Ryo Nishikawa, Ryuji Kosaka, Ayaka Shibutani, Hiroyuki Miura, Taijiro Tamura