L’uomo seme: il canto delle donne

In Teatro

Sonia Bergamasco reinterpreta – e dirige – il manoscritto di Violette Ailhaud. Una storia bella e antica, quella di una guerra raccontata dalle donne

Le comunità si costituiscono attorno a un centro, che le aggrega e consente loro di affondare le proprie radici in un luogo e proiettarsi nello spazio. Fin da tempi remoti infatti si tratta di un albero, sotto cui si tessono relazioni e tramandano memorie. Storie antiche, sovente, che sembrano venire da “un tempo fuori dal tempo”, dove i confini tra mito e realtà sfumano. È intorno a uno di questi alberi che Sonia Bergamasco immagina dipanarsi le vicende del suo L’uomo seme, in scena al Teatro dell’arte con la produzione del Teatro Franco Parenti.

Sul confine tra la favola che accompagna i sogni e la custodia di un segreto appare una figura che sulle prime ha i contorni quasi d’un’ombra e prende corpo attraverso la modulazione di una voce matura: è Violette Aihlaud, ottantacinquenne, che consegna alla maggiore delle sue discendenti il ricordo di un tempo in cui la rivolta repubblicana contro Luigi Napoleone Bonaparte aveva privato il suo villaggio di tutti gli uomini. Alle donne resta il compito di coltivare la terra.

La fatica dà sostentamento, ma “la nostra terra di donne non ha più dato messi”: senza uomini la vita non può progredire. I sogni di vita e futuro dei sedici anni di Violette si piegano alla necessità, la sopravvivenza a un patto: il primo uomo che varcherà il confine del villaggio sarà l’uomo di tutte. L’amore non ha spazio, è una questione di sopravvivenza.

Anche questa è la guerra. E se la guerra – come scrive Svetlana Aleksevic – la raccontano le donne, anche il loro pianto si fa canto. Le voci, le parole e i suoni sono quelli delle pugliesi Faraualla, che mettono una lunga ricerca sul canto popolare a servizio di una storia dal sapore magico, costruendovi intorno un’architettura in cui il suono esplora tutte le sue possibilità di linguaggio ed evocazione.

Non soltanto descrive, ma si fa veicolo della poesia di un ricordo. A dargli forma uno sciabordare di onde sonore che scandiscono i ritmi del lavoro e della natura, cullano la narrazione e la vivificano. La dimensione musicale che caratterizza i lavori di Sonia Bergamasco – e qui torna moltiplicandosi ed espandendosi in sfumature, simili a quelle che colorano gli abiti curati da Barbara Petrecca  è nuovamente centrale.

L’apporto di Loredana Savino, Gabriella Schiavone, Maristella Schiavone, Teresa Vallarella, performer a tutto tondo, la impreziosisce e non si limita certo alla – pur pregevole – funzione denotativa cui la prima parte della messa in scena sembra destinarle.

Con l’arrivo del primo uomo nel villaggio infatti anche i ruoli diventano sempre più fluidi e la memoria si fa partecipazione: La Violette della Bergamasco torna ad essere ragazza, accolta tra le braccia del villaggio. Da voce si scopre corpo, terra, in un luogo dove la natura ha sembianze umane e l’umano coincide con la natura.


In un progressivo scivolare verso un’amalgama compiuta i panni dell’uomo. Jean, non possono che diventare essi stessi uno con la musica, affidati al percussionista Rodolfo Rossi, così come il rinascere della vita e la conquista della femminilità di Violette non può che prendere la forma del suono.

Una regia accurata e suggestiva non si limita però all’aspetto sonoro: trova invece il l’esatto equilibrio fra le luci emotive di Cesare Accetta, uno spazio disegnato da giochi di volumi impalpabili eppure mai accessori.

La terra, amata e origine, e il vento che congiunge passato e presente, si mostrano insieme, resi concreti da uno stare in scena che Elisa Barucchieri disegna con la leggerezza della danza e la forza di donne combattute tra  il proprio desiderio e il lavoro da fare, con l’inevitabilità con cui l’uomo seme accetta il proprio compito: “Farò questo lavoro con coscienza, perché mi piace che il lavoro sia fatto bene. Ma farò questo lavoro senza amore, perché l’amore lo tengo per noi”.

Ma è da questo compiuto essere insieme che la vita ha compiutamente luogo. Lo stesso in cui può mostrarsi nel modo più vivido il fascino di questo lavoro, ricco d’amore per una storia affascinante e per i mezzi con cui lo si esprime. Una pièce in cui Sonia Bergamasco infonde la grazia limpida e intensa che la caratterizza di cui diventano espressione ugualmente i compagni di scena,  in un gioco di specchi che nella forma del sogno racconta invece la vita per ciò che essa è. Proprio come le storie che si raccontano sotto i grandi alberi offrono ai giovani gli strumenti per diventare uomini, e poco importa il loro grado di realtà.

L’uomo seme, di Violette Ailhaud, al Teatro Triennale dell’Arte (produzione Teatro Franco Parenti) fino al 21 gennaio 2018 

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