Per favore, non guardate l’elefante

In Arte

Nella Milano di fine 2015-inizio 2016, quella Milano che puzza di marmitta bruciata e naftalina per intenderci, è apparsa l’enciclopedia pittorica di uno yankee del…

Nella Milano di fine 2015-inizio 2016, quella Milano che puzza di marmitta bruciata e naftalina per intenderci, è apparsa l’enciclopedia pittorica di uno yankee del Minnesota vecchia maniera, dall’occhio caliginoso e l’aria stanca. È apparsa l’altra faccia di John Lurie (Minneapolis 1952), un joker che ha vissuto diverse verginità artistiche: prima grande compositore musicale e sassofonista del gruppo jazz “The Lounge Lizards”; poi attoraccio di strada che ha goduto del plauso di Jim Jarmusch, tanto da rientrare nei suoi film d’obbligo, Stranger than Paradise e Daunbailò, quest’ultimo assieme alla straordinaria fisicità “i scream, you scream, we all scream for ice cream” di Roberto Benigni; infine, e soprattutto, pittore scriteriato e ricercato dai primi anni Duemila.

John Lurie, This is the cutest pervert in the world. Courtesy M77 Gallery
John Lurie, This is the cutest pervert in the world. Courtesy M77 Gallery

È proprio in veste di pittore che sbarca in Italia, e addirittura per la prima volta; e verrebbe da dire “Meet John Lurie” per giocare un po’ con il titolo del capolavoro cinematografico di Frank Capra del 1941, quando un formidabile Gary Cooper prestava il suo volto all’anonimo John Doe. Lurie arriva a Milano, si diceva, e lo fa naturalmente da vero outsider, passando dalla periferica galleria M77 di via Mecenate con la mostra Home is not a place. It is something else. Porta con sé una carrellata di stupefacenti acquerelli, circa sessanta, caricati da toni incendiari e da una notevole dose di sarcasmo, roba da dire “ehi non prendetemi sul serio” risultando, al contrario, credibilissimo e di grande impatto scenico. D’altronde, da un sessantenne contagiato dal virus di Lyme che vive su un’isola dei Caraibi e che in passato ha respirato gli anni al vetriolo di Jean Michel Basquiat e le nebbie di Tom Waits, un simile biglietto da visita bisognava quantomeno aspettarselo.

John Lurie, Monkey has ruined painting. Courtesy M77 Gallery
John Lurie, Monkey has ruined painting. Courtesy M77 Gallery

Entrati in galleria il clima è in perfetto stile Lurieano, anche il ragazzo che riceve all’ingresso, elegantissimo e risolutorio, sembra ricordare l’elastico concierge di Four Rooms, interpretato da Tim Roth; gli ambienti sono da fabbrica dismessa, fin dal primo sguardo risulta evidente la narrazione prosastica dell’esposizione: le opere, collocate in due stanzoni, si susseguono perfettamente allineate, una dopo l’altra, sopra muri che sanno ancora di intonaco fresco provocando un effetto di grande girotondo.

Il mondo di John è popolato da goffi animaletti disegnati malissimo che fluttuano tra una vasta quantità di scarabocchi, filamenti, lettere, parole, volatili, uomini, falli, elefanti o volti che sembrano alieni disegnati benissimo, minuscoli simboli ripetuti all’infinito, alberelli, piante, bastoncini, in ciò che dovrebbe essere, altamente riconoscibile, il tema della natura. Un lavorio sesquipedale etichettabile dal principio, dai grandi cattedratici, come qualcosa di onirico, surreale, astratto; ma non c’è arte più figurativa di questa! Sono tutti acquerelli, quasi tutti con una punta di inchiostro o con una sfregata di pastello ad olio, tutti con dei titoli spiccatamente narrativi e di forte coscienziosità. Solo qualche esempio: in I am a fuck beast. Your job is to love me la resa del chiaroscuro è decisamente riuscita come riuscito è l’effetto horror vacui caro all’arte medievale in These are your penises on drugs, per non parlare di un capolavoro come Monkey has ruined this painting dove il riferimento a Durer è dietro l’angolo. Le tematiche sociali sono riversate poi in Don’t even think of fucking whit us o nel commovente This is the cutest pervert in the world. Se questo non basta a rendere l’idea, soprattutto ai palati più raffinati, in mostra sono presenti dei pezzi come: This man hated Gandhi, so I made him disappear e Please refrain from looking at elephant, titolo di un’opera che ha disegnato al centro un elefante blu che sorride.

John Lurie, Son't even think of fucking with us. Courtesy M77 Gallery
John Lurie, Don’t even think of fucking with us. Courtesy M77 Gallery

John Lurie non è l’ecletticone dell’ultimo minuto che veste i panni del nuovo Francis Bacon in salsa U.S.A., e neppure, come si vede di frequente, un fenomeno stile Sky Arte che si cimenta in 187 tecniche artistiche e in 92 performance producendo un grosso bric-à-brac. La mostra curata da Michele Bonuomo presenta un artista che mette in scena una marea di semplici acquerelli senza cadere affatto, e davvero il rischio era altissimo, nella facilissima trappola “visto uno visti tutti”; il visitatore è rapito da John fino all’ultimo pezzo di carta, fino all’ultima macchia, scritta, parolaccia di questo gigantesco calendario dell’avvento.

 

John Lurie. Home is not a place. It is something else, a cura di Michele Bonuomo, M77 Gallery, fino al 31 gennaio. 

Immagine di copertina: John Lurie, Please refrain from looking at elephant. Courtesy M77 Gallery.

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