MACBETH, CONDANNA AL MOLTEPLICE

In Teatro

© LAC, Foto Studio Pagi

Le logiche di Macbeth e della sua Lady vengono messe in discussione sul palcoscenico del Teatro Strehler da Carmelo Rifici e Angela Demattè, in un adattamento prodotto dal Lac di Lugano

© LAC, Foto Studio Pagi

Straordinarie somiglianze legano spesso il passato di un attore o di un’attrice, la sua infanzia e giovinezza, le sue paure, desideri, angosce, traumi detti e non detti, alla parte che deve interpretare. Il lavoro dell’attore su se stesso non sempre ha bisogno di immedesimazioni forzate, di domande poste a se stessi tipo: “Come mi comporterei in questa situazione?”. Molti lo sanno già come si comporterebbero, senza troppi sforzi: molti quella situazione l’hanno già vissuta, almeno emotivamente, quanto basta per individuare un denominatore comune, un sentimento di empatia, di riconoscimento, di identificazione. 

Persino con i peggiori personaggi possibili, i più immorali e sanguinari. In questo caso Macbeth e la sua Lady, le cui logiche assassine sono state rimesse in discussione sul palcoscenico del Teatro Strehler da Carmelo Rifici e Angela Demattè, in un adattamento del testo scespiriano dal titolo Macbeth, le cose nascoste, prodotto dal Lac di Lugano dove ha debuttato a inizio 2020, ancora in epoca di pre-distanziamento. 

L’impostazione è raccontata a inizio spettacolo direttamente dal regista: attori e attrici prima delle prove sono stati spediti da uno psicanalista junghiano, Giuseppe Lombardi, grazie a cui hanno scovato i moventi interiori che li legano alla loro parte. Conflitti famigliari, lutti, abusi, voglia di rivalsa, sessualità, maternità sono solo alcuni dei temi emersi durante le sedute, con cui gli attori in scena si confrontano di nuovo via via che lo spettacolo prende forma. Sul fondo un video mostra alcuni spezzoni del dialogo tra lo psicanalista e gli attori-pazienti. L’occhio indiscreto di una telecamera permette al pubblico di identificare tre diversi Macbeth – Angelo Di Genio, Tindaro Granata e Alfonso De Vreese che sostituisce Christian La Rosa – e tre diverse Lady – Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini e Leda Kreider –, come se la (psico)analisi avesse irrimediabilmente frammentato i personaggi, cui ormai è preclusa qualsiasi forma di unità e sintesi. 

Una sorta di condanna al molteplice che diventa quasi un contrappasso: Macbeth e Lady si aggirano sul palcoscenico trasformati nei loro stessi demoni interiori, in streghe che si annunciano a vicenda il proprio destino, con i famosi vaticini che assumono la forma di profezie che si autoavverano. Alla fine solo un rito potrà ricomporre i pezzi, attori e attrici svaniranno nel nulla e l’ultima parola spetterà a un attore in più – Alessandro Bandini –, né Macbeth né Lady, capro espiatorio divinizzato e trasformato in idolo dorato per riportare l’ordine in scena.

Insomma, Rifici punta in alto, e lo fa con grande abilità. Dopo aver riletto in chiave girardiana la tragedia antica in Ifigenia, liberata, questo Macbeth usa la psicanalisi per scovare le “cose nascoste fin dall’inizio del mondo” con cui il pubblico può entrare in contatto (la scelta di uno psicanalista junghiano non è certo un caso). L’impostazione deve qualcosa ai dogmi di Milo Rau, secondo cui solo la realtà merita di essere messa in scena. Qui la vicenda del Macbeth, come ogni altra vicenda, interessa a condizione di trovare in essa degli elementi di verità, che in questo caso sono le storie personali degli attori e delle attrici, che si sono messi in gioco in modo davvero ammirevole. Affascina all’inizio il continuo farsi e disfarsi della rappresentazione, la molteplicità dei piani, l’idea che la regia possa essere un percorso terapeutico. Al punto che quando si passa poi al Macbeth vero e proprio rimane un po’ di nostalgia di quel dialogo segreto con lo psicanalista, che verso la fine riappare in video, deformato come in un quadro di Bacon, segno che la scena è ormai irrimediabilmente staccata dalla realtà. 

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