Spinti sull’altalena del gusto, quanti su e giù hanno subito i macchiaioli dal loro apparire alla rivalutazione odierna che li vede, riconosciuti precursori degli onnipresenti…
Spinti sull’altalena del gusto, quanti su e giù hanno subito i macchiaioli dal loro apparire alla rivalutazione odierna che li vede, riconosciuti precursori degli onnipresenti impressionisti, protagonisti di mostre in diverse città d’Italia? Vissuti, in generale, in relativa miseria, una breve fama dopo la morte, la tempesta della furia innovatrice dei futuristi… Poi la vera riscoperta, negli anni tra le due guerre, in un testa a testa tra critici e collezionisti che porta i prezzi alle stelle e i quadri di Fattori, Lega, Signorini o i meno noti Abbati e Borrani a spopolare nelle raccolte di quegli industriali (oggi si direbbe imprenditori) mecenati che hanno partecipato con un capitolo significativo alla storia del collezionismo italiano del Novecento. Tra questi un posto d’onore va riservato a Giacomo Jucker (1883-1968), rampollo di una famiglia originaria della Svizzera tedesca, trapiantata in Italia dalla seconda metà dell’Ottocento, che nella Milano di Enrico Somarè (ovvero il critico che più si è speso per il rilancio dei macchiaioli) e della Galleria Pesaro (centro del moderno collezionismo della pittura dell’Ottocento in genere) mette insieme una delle raccolte meglio scelte e documentate del movimento, nato dagli accesi dibattiti del fiorentino Caffè Michelangelo con l’intento di infondere alla pittura italiana un rinnovamento anti accademico in senso verista. Nella casa che fu di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, altro grande collezionista, le stanze dell’appartamento Jucker, in via Mauro Macchi a Milano, sono richiamate da un sobrio allestimento curato da Nour Abi Saad, giovane neolaureata del Politecnico. Alle pareti, secondo un criterio espositivo squisitamente estetico, corrono 55 opere della raccolta, oggi perlopiù dispersa. Appartengono, per la maggior parte, ai decenni 1860-1870: gli anni «eroici» della rivoluzione della macchia, secondo le definizioni che Somarè, autore anche di un primo catalogo della collezione, andava definendo in contemporanea alle date degli acquisti.
I più rappresentati erano e sono Giovanni Fattori e Silvestro Lega, il prediletto di Jucker, che per anni cerca di scrivere un libro di trucchi e segreti per distinguere i quadri autentici dai tanti falsi del pittore in circolazione, fino a divenire l’incubo degli antiquari. Curiosità (1869) di Lega, insieme a Costumi livornesi (1865), Le botti rosse (1866-1870) o Paesaggio a Castiglioncello (1867-1870) di Fattori, sono tra le migliori rievocazioni, in chiave moderna, della ‘pittura di luce’ del Quattrocento toscano, tanto cara al rigore sperimentale della prima stagione della ‘macchia’, dove i rapporti cromatici e luministici compongono una specie di teorema filosofico sotteso alla pittura. È così anche nelle tante scene di taglio pretestuosamente ‘verista’ o nelle amate sessioni en plain air, che diventano un soggetto più volte riproposto (Fattori riprende per esempio Silvestro Lega che dipinge sugli scogli, 1866, ed Eugenio Cecconi, 1878-1880) e portano a un radicale ridimensionamento delle superfici da dipingere, tele o tavole, le preferite di Fattori, che può stirarci sopra il colore fino a fare apparire il supporto. L’amore incondizionato per i cavalli, ripresi in varie posizioni, bianchi o neri, montati da soldati in ricognizione o in battaglia, colpisce nei tanti quadri che hanno reso Fattori il pittore del Risorgimento per eccellenza, fino all’inclusione, in Senso di Luchino Visconti (1954), de Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta, cinematograficamente ricostruito, con precisione maniacale, per rievocare la vergognosa ritirata di Custoza.
La rivoluzione dentro la classicità: la luce scolpita in tagli netti sulle distese assolate dell’Appennino, i chiostri e le stradine percorse da rade ombre, nei quadri di Odoardo Borrani e Giuseppe Abbati, in un rigore geometrico che sta tra Piero della Francesca e il migliore Seicento olandese. E attenzione ai soggetti. Ci vorrebbe uno studio per indagare il ruolo affidato all’immagine della donna nella trasmissione di idee e sentimenti ‘romantici’ nella pittura italiana del maturo Ottocento. Sempre pensosa, e assorta in profondissime elucubrazioni, qualunque cosa stia facendo: che legga un libro (Lettura romantica di Lega, 1870), intrecci della paglia (Giovane trecciaiola di Cristiano Banti, 1873) o lavori al telaio (La bigherinaia di Lega, 1883).
Allo scoppio della seconda guerra mondiale la collezione Jucker era sostanzialmente formata, secondo direttive del gusto che saranno spazzate via negli anni successivi al conflitto bellico. Nel 1956, quando il proprietario la apre al pubblico per la prima volta, con visita un giorno alla settimana, è già riconosciuta come una sorta di ideale museo della pittura italiana del secondo Ottocento. La riapertura per cura degli eredi, nel 1968, accompagnata dalla pubblicazione di un catalogo introdotto da Anna Maria Brizio, offrirà ai milanesi la possibilità di aggirarsi tra le stanze ingombre dei preziosi quadri ancora per qualche anno, fino al 1974. Sono gli anni della Milano forse più illuminata, dove, a pochi minuti di tram, si poteva anche visitare (fino al 1967) la scelta raccolta di dipinti del Novecento allestita da Gianni Mattioli, in via Senato 36, aperta ogni domenica mattina.
L’incanto dei macchiaioli nella collezione di Giacomo e Ida Jucker, a cura di Andrea Di Lorenzo, Fernando Mazzocca e Annalisa Zanni, Museo Poldi Pezzoli, fino al 29 febbraio
Immagine di copertina: Giovanni Fattori, Silvestro Lega che dipinge sugli scogli, 1867, collezione privata.