Il quasi inevitabile debutto al cinema della star di YouTube Maccio Capatonda (15 milioni di visualizzazioni) è scontato e stantio. E scivola nella volgarità
Arriva in sala l’inevitabile debutto cinematografico di Marcello Macchia, in “arte” (virgolette d’obbligo) Maccio Capatonda, ennesimo guitto nazionalpopolare di estrazione televisiva. Sulla scorta dei successi recenti di Zalone e di Biggio&Mandelli, Italiano medio passa in rassegna i pezzi forti del repertorio che ha reso il comico abruzzese un fenomeno da 15 milioni di visualizzazioni su YouTube.
Dal sodale compagno che “usciva la gente” al grido “mobbasta” degli agguerriti ambientalisti, fino al liberatorio e sgrammaticato sfogo “amechemenefregamme”: il plot (piuttosto intricato, a dir la verità) si rivela subito un gioco pretestuoso per inanellare uno dopo l’altro i tormentoni che hanno fatto la fortuna di Maccio, ad uso e consumo di un pubblico di aficionados pronti a esplodere in fragorose risate di fronte all’effetto déjà vu di battute ormai assurte al rango di veri e propri cult.
Una girandola di gag costruite sul crinale scivoloso tra nonsenso e trivialità, che, sebbene efficaci e funzionali nelle clip da una manciata di minuti che spopolano in rete, faticano a reggere il peso di un lungometraggio. Eppure poteva sembrare intrigante la scelta di espandere, fino a farne un film, lo sferzante finto trailer, apparso sul web, sul novello donchisciotte che, esasperato dalle troppe sconfitte, decide di ridurre al minimo le proprie capacità intellettive grazie a una pillola miracolosa.
Ma i cento, interminabili minuti di Italiano medio tradiscono la scompostezza e la povertà di una sceneggiatura (scritta a dodici mani!) costruita sul riciclo di sketch già rodati o sull’abuso di grandi “classici” della comicità italica contemporanea, come gag scatologiche, episodi di eclatante meteorismo e rigurgiti xenofobi. Per dirla con Guido Almansi, non basta “fare lo scemo” per produrre un film.
Ne risente, in prima istanza, la cifra surreal-demenziale che aveva caratterizzato le performance televisive di Maccio. In Italiano medio la satira, che si vorrebbe feroce e dissacrante, colpisce nel mucchio senza ferire nessuno, indirizzandosi oltretutto con maggior durezza verso obiettivi francamente facili e stantii (il mondo fasullo dello show-biz, l’iper-tecnologicizzazione dei nostri giorni, le esacerbazioni dei complottisti “per professione”).
Poco a poco, il film finisce così per assomigliare grottescamente all’italiano medio che vorrebbe stigmatizzare: chiassoso, cafone, fieramente arrogante e ignorante, capace di indicibili bassezze e ipocrisie, sinistramente compiaciuto dei propri limiti. Un’insopportabile (e per niente nuova) apologia di vizi e (mal)costumi che, una volta ridicolizzati bonariamente a tutto schermo, possono essere perdonati e dimenticati, nonché reiterati a cuor leggero. Come dire: mal comune, mezzo gaudio.
L’italiano di Maccio Capatonda non è medio, bensì mediocre. Come il suo cinema.