Goshka Macuga: il futuro si decide oggi

In Arte

Che la Fondazione Prada di Milano sia uno spazio culturale altamente sofisticato e di grande caratura scientifica è un fatto ormai arcinoto. O così dovrebbe…

Che la Fondazione Prada di Milano sia uno spazio culturale altamente sofisticato e di grande caratura scientifica è un fatto ormai arcinoto. O così dovrebbe essere. Se ne è parlato fin dal principio: l’estetizzante complesso architettonico, da ex distilleria riconfigurata a nuova cittadella del futuro, è strettamente proporzionale al livello di ricerca storico artistica lì praticato. Il Podium e la Cisterna hanno significato per diversi mesi del 2015 passare con lo sguardo da un’opera stupefacente come Love Lost di Damien Hirst alle straordinarie statue greco-romane che Salvatore Settis andava posizionando una dopo l’altra su basamenti hi-tech in Serial Classic, mostra rivoluzionaria condivisa con la sede di Venezia.

I sotterranei del grande Cinema continuano oggi il Processo Grottesco di Thomas Demand; il Deposito Sud sta ancora ospitando la mostra An Introduction di Gemano Celant; mentre le creazioni di Louise Bourgeois e del sessantunenne Robert Gober sono ormai dei gesti di imperitura memoria custoditi egregiamente dalla Haunted House (casa degli spiriti), la torre sulla cui superficie esterna l’architetto Rem Koolhaas ha steso uno strato di foglia d’oro.

Ma senza dimenticare poi, cosa rappresentano il Bar Luce inventato da Wes Anderson, l’Accademia dei Bambini con la Biblioteca; o l’ antico intervento, a distanza ma sempre a Milano, di Dan Flavin in Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, o quanto importantissime siano le opere della vasta collezione permanente che non sono state ancora esposte.

Un gigantesco sacrario di risposte alla sete del gusto e della bellezza di ognuno di noi, in ciò che questa fondazione vuole essere oggi e sarà sempre più domani: essa stessa, la vera opera d’arte. In tutto questo non sono mancati, e ci mancherebbe non ci fossero, diversi balbettii museografici, come, io credo, il recente progetto su Gianni Piacentino e l’esibizione nel Deposito Nord intitolata Recto Verso: entrambi non proprio riusciti, mi pare, sia per i contenuti sia per l’affluenza di pubblico.

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Ma si direbbero questioni di lana caprina se pensiamo a quanti anni di vita ha il nuovo polo museale e a ciò che ha già prodotto e che continua a produrre come la stupefacente esposizione in corso intitolata To the Son of Man Who Ate the Scroll, letteralmente «Al figlio dell’uomo che ha mangiato il rotolo», titolo ripreso da un versetto della Bibbia e precisamente dal libro di Ezechiele.  Una mostra che si presenta complessa in ogni sua forma, di enorme sperimentazione e che non si dimenticherà facilmente, a cominciare da chi l’ha ideata, Goshka Macuga: artista polacca ma che vive e lavora a Londra e che ricopre il ruolo di curatrice, ricercatrice e collezionista con la medesima intensità e preparazione. Macuga ci invita a riflettere sulla nostra stessa esistenza e sul ruolo della memoria, attraversando gli spazi della Fondazione con un grande interrogativo riguardante il concetto della “fine” nel contesto della pratica artistica attuale. Nella straordinaria cornice del Podium, della Cisterna e della galleria Sud si esplorano differenti questioni fondamentali della storia dell’umanità come l’origine, il tempo, la distruzione, la rinascita e soprattutto come l’uomo riuscirà a conservare e a tramandare i vasti campi del sapere e i complessi sistemi di classificazione che si è creato e che continuerà a darsi.

Al primo piano del Podium, nella sacrale agorà di vetro, troviamo uno scenario apocalittico con opere di grandi dimensioni che fluttuano come satelliti lungo il perimetro dello spazio. Sono creazioni provenienti dalla stessa collezione Prada e da importanti musei italiani e stranieri: Lucio Fontana, Alberto Giacometti, Thomas Heatherwick, Phyllida Barlow,  Ettore Colla, Robert Breer, James Lee Byars ed Eliseo Mattiacci. Opere d’arte assemblate con la volontà di riflettere sulla cosmologia e sull’origine della vita; ma ciò che più sorprende è che circondano al centro un androide che declama e ammonisce lo spettatore con un monologo composto da frammenti di discorsi di importanti filosofi, intellettuali, pensatori, scrittori, statisti.

Il Robot, concepito da Goshka Macuga e realizzato in Giappone dallo studio A. Lab, è la testimonianza dell’universo senza l’uomo e del ruolo invasivo e dominante che la tecnologia assumerà sempre più in questa esistenza. Una minaccia, la tecnologia, che ci ha accompagnato fin dal principio, basta pensare alla storia del mito, alle Metamorfosi di Ovidio, a figure come Prometeo o a personaggi romanzeschi come il mostro di Frankestein.

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Ma la minaccia del Robot è solo apparente, e qui sta la grandezza della performance: si perché l’androide racconta i pensieri di Platone, Albert Einstein, Sigmund Freud, Friedrich Nietzsche,  ma anche Mikhail Gorbachev, Stanley Kubrick, Buckminster Fuller, Mary Shelley, film come Blade Runner o il Grande Dittatore di Charlie Chaplin, svelando il suo vero volto di archivio del discorso umano. L’artista punta al mantenimento della conoscenza facendo coincidere l’arte della retorica con una nuova e artificiale Ars memorativa.

Al secondo piano ci aspettano cinque tavoli meccanici su cui, come fossero tappeti mobili, sono distesi oltre nove metri di rotolo di carta dove sono rappresentati numerosi disegni, schizzi, testi, formule algebriche, simboli realizzati da piccoli robottini che impugnano delle biro e spaziano lungo il tappeto bianco. In fondo alla sala, sul quinto tavolo, si possono ammirare i robottini all’opera in tempo reale.

L’alfabeto di segni realizzato dai robot simboleggia la storia del progresso umano e Macuga lo accompagna ad altre opere d’arte antica e contemporanea, di altri celebri artisti, disposte asimmetricamente lungo gli stessi tavoli. Il concetto che la performance trasmette, e lo si percepisce fortemente, è un instancabile racconto sull’evoluzione dell’uomo e la sua possibile rovina. Questa installazione si chiama Before the Beginning and After the End ed è architettata dalla curatrice in collaborazione con Patrick Tresset.

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I tre ambienti della Cisterna ospitano un’installazione composta da 73 teste di bronzo che rappresentano 61 personaggi storici e contemporanei, circa gli stessi di cui l’androide si fa portavoce, collegate tra loro da lunghe aste metalliche. È un incontro immaginario tra diversi volti che sono idee e pensieri che riflettono la complessità della natura umana. I gruppi impiantati si accostano come fossero sistemi molecolari. L’effetto non è tra le cose più belle in mostra, ma il ragionamento sotteso è di grande portata.

L’ultima sosta si fa al Deposito Sud, all’interno dell’esposizione An Introduction, nello specifico nella stessa sala dove è collocato l’assemblaggio di uno studiolo dell’Italia settentrionale della fine del Quattrocento. Qui l’architettura rinascimentale dove si pratica lo studio e la conoscenza, dunque la memoria, diventa per Goshka Macuga il luogo dove effettuare una serie di letture pubbliche di importanti testi in Esperanto. Lungo le pareti fanno da cornice eccezionali opere monocrome di Walter De Maria, Mario Schifano, Lucio Fontana, Enrico Castellani.

La mostra di Goshka Macuga allestita alla Fondazione Prada anticipa “il futuro che verrà” direttamente dalla periferia di Milano.

 

Goshka Macuga: to the son of man who ate the scroll, Fondazione Prada, fino al 19 giugno.

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