Il suicidio di una bambina, la scomparsa di una maestra: in mezzo, una piccola comunità di montagna, il senso profondo di un mestiere, il legame umano e l’estrema ribellione per la violenza. È un romanzo di singolare caratura, quello di Maddalena Vaglio Tanet: si addentra in territori di ombra e di ferita, di mistero e di scelta. Scritto in una lingua precisa, densa, schietta anche quando affronta luoghi in cui è il chiaroscuro a fare la tessitura dominante, “Tornare dal bosco”, pubblicato da Marsilio, è candidato al Premio Strega.
Silvia Canepa è una maestra affidabile, sola di una solitudine assennata e diligente, e interpreta il suo ruolo di mite nel piccolo paese di montagna dove i giorni sono scanditi dalla fatica quotidiana dell’insegnamento ai bambini nelle sue classi.
Di quanti anni sono che ormai fa quel lavoro sembra aver perso lei stessa la cognizione, perché la scuola è come un rampicante: si prende le ore, i pensieri, il tempo; assorbe per attrazione e – perfino – dà forma e riempie il vuoto di ogni ulteriore possibilità, finché non toglie anche la memoria del passato più lontano, quello delle ferite e delle cicatrici.
Così appare, la maestra Silvia, come una certezza dimessa e rassicurante di quel borgo fuori da tutto: è il 1970, lei ha 42 anni – non giovane, non vecchia, non madre, non moglie, non donna sessuata. Maestra, appunto.
Ma una mattina, senza preavviso, a scuola non si presenta: prende la via del bosco, determinata a scomparire. Salta tutta insieme, allora, la copertura in cui si era così ben ammantata: il sapone scrupoloso, il tacco basso da signorina, tutto il rito della sua quotidianità di vestale.
Poteva sembrare solida e opaca come un lastrone di ghiaccio su cui si può camminare senza paura che si rompa, ma la lastra era sottile, invece, una membrana appena rappresa.
La selvatichezza sopita, la fragilità aspra così abilmente nascosta deflagrano in quel gesto che la comunità non comprende: è viva? è morta? si è uccisa? si può ignorare? occorre andare a cercarla?
Ma, soprattutto, che legami ci sono con la morte, già sconvolgente e fresca, della sua alunna Giovanna – la bambina precoce e sigillata che si è gettata dalla finestra?
Così comincia il romanzo di Maddalena Vaglio Tanet, Tornare dal bosco, pubblicato per Marsilio e candidato al premio Strega: storia di perdizione, di ribellioni atroci, di violenza taciuta, di infanzia e di fantasmi. Ma anche romanzo di fondovalle.
È vero: c’è la montagna, c’è la natura, c’è la fatica della vita in malga; ma è lì dove le esistenze si incrociano, nel paese che è periferia di tutto, nel quale tutti sanno e tutti tacciono, e una manciata di chilometri significa una diversità inconciliabile, che la montagna mostra la sua faccia anti epica di luogo di affettività incapaci, o monche, incatenato a gerarchie ferree di distribuzione di genere, disciplinato dalla memoria della (sempre troppo recente) povertà. Insomma: l’aria sarà anche buona da respirare, ma chi arriva da fuori la paga in diffidenza contante, e nel chiuso delle case i miasmi esistenziali sanno essere ben pesanti.
È però, soprattutto, questo romanzo, un libro di ribaltamento.
Un modo di ragionare sul ruolo (profondo e ulteriore) della scuola non soltanto come funzione della vita, ma come strumento di comprensione e luogo strutturante per l’individuo (ogni individuo: anche quello più riottoso) nella comprensione del desiderio, della scelta – e, in ultima analisi, della propria felicità di essere pensante. La scuola è l’unica che può dare parole. E le parole sono il tramite essenziale con il mondo.
Silvia era sul punto di ricordare perché avesse fatto la maestra, oltre alla convenienza e alle consuetudini: per l’irrequietezza, i terrori e l’intelligenza dei ragazzini, per come sanno farsi teneri d’istinto, anche se sono troppo nuovi, troppo beffardi e troppo coraggiosi per conoscere la misericordia; per il loro sguardo mentre imparano, prima di diventare persone che tirano avanti, come gli animali neonati la cui venuta al mondo è un miracolo, uno sbalordimento, finché a un certo punto diventano solo bestiame, per quel che ci riguarda.
E quindi Maddalena Vaglio Tanet allestisce, in questa storia, una narrazione sulla responsabilità degli insegnanti: quella che si prendono; quella che gli viene messa sul collo perché altre istituzioni vicine non ci sono (più); quella che, anche, travolge di fronte all’impotenza, o alla pochezza di mezzi, o al senso di colpa, o alla frustrazione.
Quanto danno c’è nell’avere intuito da adulti il crinale di una giovane disperazione, essere intervenuti per arginare, avere ottenuto qualche risultato, vedersi sfilare all’improvviso di mano tutto? La perdita di uno studente non è mai, per gli insegnanti che esercitano il mestiere con la coscienza di quello che stanno facendo, un fatto da poco: non lo è nel caso di un ritiro, o di una bocciatura. Figuriamoci cosa può voler dire di fronte a un suicidio: che tipo di disperazione a distanza, che tipo di innesco può significare per chi è stato parte di quella zona esclusiva, complessa e non raggiungibile che costituisce il terreno del vissuto condiviso discente-apprendente, improvvisamente mozzato.
E qui ecco il secondo piano ribaltato di Tornare dal bosco. Perché Maddalena Vaglio Tanet ha ben presente che tipo di riconoscimento può avere letto la maestra Silvia nel gesto della piccola Giovanna, della quale ha capito molto del non detto. Per esempio che
per educarla il padre la colpiva, mai metodicamente e mai a lungo, però la cotenna dura delle sue mani lasciava certi lividi che impiegavano settimane a sbiadire.
In quarta elementare, Giovanna è dentro all’irruzione della vita: il corpo incoerente della pubertà attraversa un tumulto che non ha ancora parole né espressione. E la scuola è lenta a dare parole, arranca in coda mentre le gambe si allungano e i fianchi si arrotondano, e la testa viene presa d’assedio in totale solitudine.
Giovanna si sentiva come se qualcuno l’avesse imbrogliata. Non si era messa a crescere di proposito; trascinata in avanti cercava di non perdere l’equilibrio, e se inciampava non era colpa sua. Un giorno si metteva in bocca una cicca, un altro seguiva docile le ripetizioni della maestra (…) Una cosa sola rimaneva costante: da qualche mese le sberle del padre sul suo nuovo corpo le erano insopportabili, ancora di più dello sguardo di sua madre che la saggiava.
Crescere è un mistero spaventoso, a tratti un incubo, una esaltazione: e Giovanna, che è estremamente sensibile, come ha intuito la sua insegnante, si trova all’improvviso lacerata e sola.
La vediamo, fantasma, tornare a trovare e a vegliare la sua maestra, nei giorni e nelle notti che si appressano alla fine; da quel bosco dove ha scelto di cercare la propria espiazione di adulta che non è stata capace di proteggere quell’infanzia, Silvia vuole essere inghiottita; per proprietà transitiva il tempo che ha rapito Giovanna bambina è l’altare sul quale Silvia vuole offrire sé stessa: spossessarsi del proprio corpo, consegnarlo come cosa alla consumazione della natura. Ed è così che, come bambina da accudire, verrà vissuta dal piccolo Martino (asmatico, balbuziente e non a caso straniero al paese): che, trovandola per caso, le offrirà la possibilità di riannodare la catena reciproca di scambio e asilo che potrebbe infine restituirla.