Majakovskij: della morte e dei misteri

In Weekend

Lo strano suicidio del poeta della Rivoluzione d’ottobre al centro del serrato romanzo-indagine di Serena Vitale

Nel romanzo-inchiesta Il defunto odiava i pettegolezzi, Serena Vitale mette in scena lo strano suicidio di Vladimir Majakovskij in un tale labirinto di cause, testimonianze, incidenti, indagini, reazioni, tanto contraddittori, tanto appassionati, tanto livorosi che si fa fatica a capire chi fosse il geniale, trasgressivo vate della Rivoluzione Bolscevica.

«Majakovskij non riesce neanche a morire senza far casino», commenta qualcuno seguendo il suo spettacolare funerale. Più di centomila persone in corteo, altre migliaia sui tetti delle case, sui balconi, arrampicate sugli alberi, sui lampioni. Ci sono proprio tutti, amici e nemici, spie, proletari, intellettuali, nomenklatura del partito; l’unica cosa che l’avrebbe divertito è la pesante corona funebre fatta di grossi martelli, volani, bulloni, dadi: Per il poeta di ferro, una corona di ferro, è iscritto sul nastro.

L’ultimo oratore è Kirsanov, suo pupillo, che solo due mesi prima – dopo lo scisma causato da Vent’anni di lavoro – ha rinnegato il maestro (‘Spellarmi le dita con la pomice, / innaffiarle di benzina, / pur di raschiar via / tutte le sue strette di mano’). Grazie al cielo non tiene discorsi. Legge brani di A piena voce, il poema che la morte ha lasciato incompiuto.

Professore
toglietevi gli occhiali-bicicletta!
Io stesso
Racconterò del tempo
 e di me.

Io, svuotacessi
e acquaiolo,
dalla rivoluzione
mobilitato,
lasciai le nobili serre
della poesia,
donnetta capricciosa,
per il fronte. (…)

Il mio verso
si aprirà una breccia
nella mole degli anni
e apparirà –
ponderoso,
rozzo,
tangibile. (…)

La ricostruzione dei momenti che precedono la tragedia è meticolosa, ossessiva.
Mosca, 14 aprile 1930. Alle 9,30 Majakovskij va a prendere in taxi l’attrice Veronika Polonskaja, bellissima femme fatale, ventun anni, sposata, sua amante, anche se lei in primo tempo negherà per difendere la sua rispettabilità e poi lo rivendicherà per diventare famosa. I due arrivano nella kommunlka che il poeta divide con quattro famiglie. Si chiudono nella sua stanza. Ordinano del vino. Litigano. Uno sparo. Lei esce urlando aiuto. Poi dirà che era già fuori, sul pianerottolo. Arriva subito la polizia in massa. Devono aver fatto acrobazie nella piccola stanza per non inciampare nel suo grosso cadavere, steso sul pavimento ‘come un crocefisso’. Anche da morto Majakovskij è ingombrante.

“Giaceva su un fianco, la testa verso la parete, tetro, il lenzuolo fino al mento, la bocca semiaperta, come uno che dorme… Aveva l’espressione con cui si comincia a vivere, non si finisce”, scrive Boris Pasternak, accorso subito – come tutti – anche se non si piacevano reciprocamente.

Struggente il ricordo di Marina Cvetaeva: “…Con il suo passo veloce è arrivato lontano, molto lontano dal nostro tempo, e da qualche parte, dietro qualche angolo, gli toccherà aspettarci ancora a lungo”. Il più sincero Sergej Eizenstein, in un appunto di diario scrive “..Così, sul campo, è morto Majakovskij… Stava come un macigno sulla strada di tutti coloro che volevano attentare alla sacra causa del comunismo… Bisognava farlo fuori…Uccidere una persona con le sue stesse mani è la più terribile forma di omicidio, sacrilega e crudele”.

La versione ufficiale è quella di ‘stupida, pusillanime morte’ per amore, inammissibile per un comunista. C’è anche il coro dei filistei: si è ucciso perché aveva la sifilide; perché non riusciva a pagare tasse e debiti di gioco; perché era un poeta finito. Per altri ancora resta l’eroe-martire dell’utopia rivoluzionaria.

 Serena Vitale Il defunto odiava i pettegolezzi Adelphi, pp 284, € 19

Fotografia di Marco Hönig

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