Manhattan Beach non è forse il più convincente tra i romanzi di Jennifer Egan, ma è probabilmente quello che ne rivela meglio l’arte
New York, 1942. Anna Kerrigan, poco più che ventenne, si trova assieme a una collega su un pontile del cantiere navale di Brooklyn, dove è stata assunta, come molte altre donne, per lavorare all’allestimento delle navi dell’esercito americano, pronte a salpare all’indomani dell’attacco di Pearl Harbor. La sua attenzione, per pochi istanti, è catturata da un uomo con indosso uno scafandro che sta calandosi in mare: il tempo sufficiente per essere colta da una specie di epifania. Anna capisce infatti di aver sempre voluto diventare una palombara, per immergersi sott’acqua e camminare – lei che “Non aveva mai toccato il fondo” – sui fondali marini. Ma le cose non sono semplici, perché quello è un lavoro per soli uomini, cioè per i pochi che ancora non sono andati in guerra; e poi perché l’impresa è impegnativa, e a casa c’è ancora bisogno di lei, soprattutto da quando suo padre ha abbandonato di punto in bianco la famiglia, lasciando lei e la madre sole ad accudire Lydia, la sorella minore gravemente invalida. In realtà, Eddie Kerrigan, suo padre, non è scomparso, e neppure è morto, come Anna arriva a sospettare; è dovuto scappare – reinventandosi marinaio a San Francisco – per evitare che le cose volgessero al peggio con Dexter Styles, il gangster con il quale si era messo in affari per mantenere la famiglia ma la cui fiducia ha irrimediabilmente tradito. Proprio quel Dexter Styles che Anna, mentre lotta per coronare il suo sogno di diventare la prima donna palombaro della storia degli Stati Uniti, incontrerà sulla sua strada, e che suo malgrado la costringerà a fare i conti con il proprio passato e a mettere in discussione molte scelte future.
Questa, per sommi capi, la trama di Manhattan Beach, l’ultimo romanzo di Jennifer Egan, pubblicato da Scribner, lo scorso novembre, negli Stati Uniti e in Italia, poco più di un mese fa, da Mondadori, nella traduzione di Giovanna Granato. Come forse è intuibile, la storia raccontata da Egan mette a tema, tramite i suoi personaggi, molte questioni, fra cui i tentativi di emancipazione femminile in una società ancora fortemente maschilista, la fragilità dei legami famigliari, ma anche, più in generale, le contraddizioni di un’epoca – grosso modo quella che va dalla crisi del 1929 agli anni della Seconda guerra mondiale – in cui gli Stati Uniti cambiano fisionomia, per così dire, avviandosi, come afferma uno dei personaggi minori e certo più meschini dell’intero libro, a diventare “i banchieri del mondo”. È però anche, in fondo, un libro su New York e insieme sui costumi di un’epoca e sui suoi ideali patriottici – che per esempio prendono corpo in quelle donne che incidono sui pezzi di metallo che andranno a comporre le navi in partenza le iniziali dei loro figli, commosse all’idea che il loro nome solchi i mari, “infinitesima parte di una nave degli Alleati”. È insomma anche, Manhattan Beach, un romanzo denso di informazioni, frutto di un notevole lavoro di ricostruzione documentaria. Tutti aspetti che idealmente collocano Egan (nata nel 1962, a Chicago) a fianco di scrittori e scrittrici della sua generazione come Jonathan Franzen, Jeffrey Eugenides, Rick Moody o Elizabeth Strout, interessati a mettere in scena e indagare la società americana contemporanea e a ricostruirne una parte di storia, e che per farlo ricorrono a strutture e forme spesso convenzionali, ‘realiste’, si potrebbe dire (e si è detto) per semplificare al massimo il discorso.
E in effetti praticamente tutti i recensori di Manhattan Beach ne hanno finora sottolineato la ‘classicità’, quando non proprio l’affinità rispetto a romanzi considerati capisaldi della tradizione realista. Il Washington Post ha scritto che il romanzo “fa un salto nel passato, restituendoci una storia costruita a partire da vecchie ma solide forme”; Slate ha parlato – peraltro in toni lusinghieri – di un “romanzo storico molto convenzionale”; il Guardian l’ha addirittura definito un “romanzo vittoriano” – ma c’è anche chi, anche in Italia, lo ha descritto come un romanzo fin troppo convenzionale. A leggere commenti del genere, in effetti, viene in mente quel personaggio di Pensieri, pensieri, di David Lodge, che alle soglie del 2000 – quando ogni azzardo formale sembra essere stato tentato – scrive un romanzo “talmente all’antica nella forma da essere quasi sperimentale”, ma è indubbio, al di là di ogni giudizio di valore, che Manhattan Beach si presenti, almeno a prima vista, come tutto fuorché un romanzo innovativo. Scritto in terza persona, al passato, con un narratore blandamente onnisciente, che si ‘flette’ per aderire volta a volta ai punti di vista dei tre personaggi principali, Manhattan Beach sembra mettere da parte le sperimentazioni dei romanzi e racconti che lo hanno preceduto.
Il punto, del resto, sembra essere proprio questo: gli aspetti in questione non avrebbero destato tanta attenzione se non fosse per la distanza che separa, almeno apparentemente, Manhattan Beach dagli altri testi scritti da Egan. Il precedente Scatola nera (2012), per esempio, è stato composto interamente via Twitter, e consiste nelle istruzioni – di centoquaranta caratteri l’una, va da sé – che una giovane soldatessa-robot in missione registra a uso di altre future “bellezze” che come lei dovranno sventare potenziali attacchi terroristici; La fortezza, del 2006, è in parte una sorta di romanzo gotico, o neogotico che dir si voglia, in parte un metaracconto che mette in discussione la verosimiglianza di ciò che stiamo leggendo, mentre Il tempo è un bastardo (2010), cioè il romanzo che ha reso nota Egan al grande pubblico e che le è valso il Pulitzer per la narrativa, intreccia molte storie, l’ultima delle quali ambientata in un futuro vagamente distopico, e fra l’altro contiene un capitolo che consiste unicamente di slide in PowerPoint. Egan si è insomma fatta conoscere, o meglio è stata descritta negli anni, come una scrittrice incline alla sperimentazione, estremamente eclettica da un punto di vista delle scelte formali e stilistiche – aspetto, questo, probabilmente accentuato, almeno per il lettore italiano, dalle diverse ‘voci’ (quattro, al momento) dei traduttori dei suoi testi.
Niente di tutto questo, appunto, in Manhattan Beach, che anzi, seguendo critici e recensori, segnerebbe una sorta di scarto internamente all’opera di Egan. Ma il fatto significativo è soprattutto che tale scarto, presunto o effettivo, dà vita a un romanzo talvolta poco equilibrato, a tratti ridondante, non del tutto convincente. Per esempio, a fronte delle decine di pagine dedicate alla ricostruzione, spesso accuratissima, dei luoghi o dei contesti in cui i personaggi si muovono, i principali snodi narrativi sono risolti molto rapidamente: come nelle ultime cinquanta pagina all’incirca, dove succedono molte più cose, in termini di ‘avventurosità’, di quante non ne siano avvenute nelle quattrocentocinquanta precedenti, senza che peraltro si rinunci al ricorso a scorciatoie o a cliché narrativi. Il continuo alternarsi dei punti di vista, poi, alla lunga risulta farraginoso; così come l’amalgama delle voci di narratore e personaggi e dei rispettivi punti di vista non sempre è realisticamente efficace, almeno nella misura in cui tutti i personaggi sembrano pensare in modo fin troppo raffinato (quando Styles incontra dopo anni il signor Q., un boss con il quale ‘collabora’ da tempo la prima cosa che nota è che “La fragilità dell’età avanzata si rivelava nel lavorio limaccioso, altalenante del respiro”, mentre Anna, ritrovandosi a pensare al padre, si accorge che “la sua assenza si era calcificata”; quasi che lo stile di Egan, in particolare la sua tendenza alla metafora ricercata, e spesso straniante, tendesse ad appiattire, ovvero a sublimare, i pensieri e le parole di chiunque, indipendentemente da status sociale, background culturale o semplicemente specifici modi di parlare o pensare).
E però, disseminate in questo romanzo a ben vedere imperfetto, in cui l’unico vero collante tra i vari personaggi e le rispettive storie sembra essere la presenza del mare, a partire dall’esergo di Melville (“Già, meditazione e acqua, come tutti sanno, sono unite per sempre in matrimonio”), si trovano pagine e passaggi splendidi. Come a inizio romanzo, quando viene descritta una sera come tante in casa Kerrigan, con il padre ancora fuori e Anna insieme alla madre prima fanno il bagno a Lydia, il corpo “bello in quel suo strano modo, come l’interno di un orecchio”, e poi si stendono a letto, lei al centro, loro ai lati, “tenendosi la mano sopra il corpo di Lydia per evitare che addormentandosi cadesse dal letto”, mentre Anna realizza che passando “dal mondo del padre a quello della madre e di Lydia, le sembrava di liberarsi di una vita a vantaggio di una più profonda”; o come quando, più avanti, Lydia viene portata da Anna al mare, e per la prima e unica volta nel romanzo siamo ammessi a conoscere i suoi pensieri, sulla pagina restituiti come un flusso di parole disordinato, ma a suo modo molto lirico:
Bacio Anna
Uccello Cri cri
Guarda le onde shhhrrr shhhrrr shhhrrr
Ammirailmareilmareilmareilmare
Bacio Anna
Uccellino azzurro Shhh
Respira
Faaaah laaaaah
Ammiraimiraimareimira glimare ammirai
Ma anche dei personaggi maschili, spesso fragili e per più versi spregevoli, conosciamo pensieri e timori, oltre che dissidi interiori: il padre di Anna, per esempio, colto mentre prova “un piacere perverso nell’osservare l’ipocrisia della moglie”, che lui crede finga di non sapere della sua compromissione con la mafia locale, ma che pure – più avanti nella storia – viene assalito dai sensi di colpa, e in mezzo all’Oceano “cercava a tentoni la figlia che aveva abbandonato, la famiglia che aveva abbandonato”. Guarda caso, quasi sempre, in passaggi come questi viene raccontato pochissimo; i contenuti narrativi – gli eventi veri e propri – sono cioè ridotti al minimo, e alle volte del tutto azzerati. A essere raccontato è semmai ciò che è invisibile allo sguardo, spesso i puri contenuti mentali dei personaggi, le loro impressioni, i riflessivi interiori di ciò che avviene fuori da sé. Il che è probabile avvicini Egan, più che a quei caposaldi ottocenteschi evocati dai suoi recensori, ad autori e autrici moderniste come Virginia Woolf e forse, soprattutto, Katherine Mansfield, capaci di imperniare le loro storie sull’interiorità di personaggi spesso raccontati nella loro solitudine. Ma forse, e probabilmente in modo paradossale, questi passaggi consentono anche di avvicinare Manhattan Beach al resto dell’opera di Egan, che al di là della ripresa e manipolazione di vari generi e forme ha sempre posto al centro dei suoi testi i personaggi, i loro conflitti più intimi, ciò che ‘a voce’ non può essere restituito, o che può essere detto solo a costo di una sua deformazione. In questo senso, proprio per via della sua struttura, ovvero per l’assenza di strategie ed elementi ‘strani’ o stranianti, in senso lato postmoderni, più degli altri romanzi e racconti che l’hanno preceduto Manhattan Beach sembra rivelare l’essenza dell’arte di Egan, e cioè la capacità di dare vita, più che a un affresco storico o sociale, a un affresco interiore: cioè al racconto, o meglio alla rappresentazione, di ciò che accade dentro.
Immagine di copertina di Samara Doole