Lo scrittore e regista tedesco Julian Rosenfelt affida alla grande attrice un intelligente e raffinato esperimento di installazione cinematografica, che ha debuttato in musei e grandi mostre, e dopo il passaggio a gennaio al Sundance Festival arriva ora nelle sale italiane: è un montaggio assai libero di tredici monologhi ispirati ad altrettanti testi-manifesto di ideologie politiche e artistiche (da Marx ai dadaisti, da Jarmusch a Dogma) che Blanchett declama interpretando i più svariati panni, da un homeless a una speaker tv, da una madre bigotta a una deliziosa realizzatrice di pigotte
Manifesto manifesto
manifesto per le strade
manifesto molto spesso
anche in piccole contrade
Manifesto manifesto
meglio dir manifestavo
io son diventato bravo
e non manifesto più
(Paolo Pietrangeli, Manifesto, dall’album Mio caro padrone, domani ti sparo, 1970)
Con un originale, interessante film intitolato Manifesto, in onore di quello storico del Partito Comunista pubblicato nel 1848 da Friedrich Engels e Karl Marx ma anche di un’altra dozzina di pronunciamenti-simbolo di altrettanti movimenti rivoluzionari, nella cultura e nella politica, dal surrealismo al punk, la dinamica distributrice I Wonder, gemmazione del bolognese BiograFilm Festival e forte di capitali Unipol, avvia ora una collaborazione con Sky Arte per la proposizione del documentario d’autore sul doppio binario delle sale e della tv di qualità . Un genere di produzione per immagini che ha conquistato finalmente anche in Italia il posto d’onore che gli spetta tra i grandi filoni della narrazione filmata, e che sta contribuendo a un’inversione di senso tra cinema e tv: dopo tanti anni di piccolo schermo visto nel ruolo di emblema della notizia e dell’attualità, contrapposto al cinema grande come scatola magica di illusione ed evasione di massa, anche in senso letterale (ricordate La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen?) ora, al contrario, si fronteggiano quella meravigliosa biblioteca dell’immaginario che sono le serie televisive, scrigno della finzione come il mezzo che le ospita, e un nuovo uso del cinema dove si può benissimo entrare e “farsi una cultura mostruosa”, come diceva un tempo, non solo sarcasticamente, Fantozzi.
Così, entrando in una sala si può capire come funziona la National Gallery di Londra o la Public Library di New York immergendosi nelle perfette costruzioni, istruttive, emozionanti e divertenti di Frederick Wiseman, o la politica internazionale dalle interviste di Oliver Stone (che magari poi approdano anche in tv, come la recente, interessantissima, a Vladimir Putin) o ancora prendere atto dell’impatto drammatico dell’immigrazione nel nostro paese grazie al Gianfranco Rosi di Fuocoammare (cito solo gli autori e i titoli più famosi). Il cinema oggi può essere un veicolo di comprensione della realtà, e della sorte di chi convive con noi su questo turbolento pianeta, altrettanto se non più efficace (perché spesso più spettacolare) del video o del computer.
Il cartellone di “I Wonder Stories”, questo il titolo del nuovo progetto, punta però in particolare su una precisa categoria di film e autori, quella “alta”, autoriale, e su un carnet che dedica gran parte dei suoi interessi al mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo. Il debutto tocca a Manifesto, scritto, diretto e prodotto dallo scrittore e regista e Julian Rosefeldt (sarà dal 23 al 25 ottobre nelle sale italiane, info. su luoghi e biglietti qui), in cui una strepitosa (ma quando non lo è?) Cate Blanchett interpreta tredici personaggi, maschili e femminili, tra i più disparati, impegnati a interpretare, personificare, o declamare proposizioni di battaglia culturale e politica tra le più disparate per luogo, tempo e contesto.
Seguiranno poi, al cinema il 13-14 novembre The Paris Opera di Jean-Stéphane Bron, ovvero la vita dietro le quinte del grande teatro lirico francese, il 4-5 dicembre Faithfull di Sandrine Bonnaire, ritratto di Marianne, femme fatale del rock e musa di Mick Jagger e altri raccontata dalla protagonista di Senza tetto né legge, il 22-24 gennaio My Generation di David Batty, già passato alla Mostra di Venezia, grande affresco sulla Swinging London anni ’60 condotto da un grande narratore, l’attore Michael Caine, il 19-21 febbraio Reset – Storia di una creazione di Thierry Demaizière e Alban Teurlai, il 19-21 marzo Rumble – Il grande spirito del rock di Catherine Bainbridge e Alfonso Maiorana, premio speciale della giuria al Sundance Festival 2017, il 23-24 aprile Bill Viola – The Road To St. Paul’s di Gerald Fox e TBD Renzo Piano di Carlos Saura.
In parallelo su Sky Arte, andranno in onda il 3 novembre Yo-Yo Ma e i musicisti della via della seta di Morgan Neville, protagonista il grande violoncellista sino-americano, il 10 novembre l’omaggio a Dalla Senza Lucio di Mario Sesti, il 17 novembre Jason Becker – Not Dead Yet di Jesse Ville, il 24 novembre Sugar Man di Malik Bandjelloul, il 1 dicembre 25% – I segreti della guerra alla droga di Eugene Jarecki, l’8 dicembre L’istante perfetto – Il mondo di Gregory Crewdson di Ben Shapiro, il 15 dicembre Smokings di Michele Fornasero e altri ancora.
Tornando a Manifesto, stuzzicante già per la molteplicità dei significati, tutti interconnessi, del vocabolo stesso, simbolo di manifestazione pubblica e volontà di espressione, complesso di idee e libro guida di un’ideologia, la versatilità di Cate Blanchett è totale nell’esprimere la violenza espressiva e sovversiva di idee come quelle espresse da futuristi, dadaisti, suprematisti, situazionisti, artisti del Fluxus e del Dogma 95, comunisti e altri eretici dell’ideologia dominante. E questo attraverso la voce, lo scandire di frasi e concetti che hanno lasciato tutti, quale più quale meno, un’impronta nella storia del pensiero umano, da John Reed a Filippo Tommaso Marinetti, da Lucio Fontana a Jim Jarmusch, da Tristan Tzara e André Breton a Dziga Vertov e Sol Lewitt. E, nel contempo, riesce a dare volto a queste idee attraverso parti e camuffamenti tragici e grotteschi, algidi e commoventi, dalla signora borghese bigotta all’impeccabile speaker del telegiornale, dal punk ribelle e senza pace al proletario sfruttato in fabbrica, dall’odiosa manager del business dell’arte all’adorabile creatrice di pigotte antropomorfe, una delle quali si specchia, rimandando alla costante corrispondenza tra arte e realtà, nella stessa protagonista Cate Blanchett, abbigliata in identico modo.
Manifesto nasce nel 2015 come una multi-screen film installation di produzione australian-tedesca, e infatti ha avuto il suo debutto in sedi artistiche: in prima mondiale è stato “esposto” all’Australian Centre for the Moving Image e poi a Berlino – dove in grandissima parte è stato anche girato, in soli 12 giorni e per un costo di appena 90mila euro, nel gelido inverno del dicembre 2014 – al Museum für Gegenwart, dal febbraio al novembre 2016. La sua versione cinematografica di 90 minuti, quella che approda ora nelle sale italiane, ha esordito nel gennaio di quest’anno al Sundance Film Festival
La scelta di Blanchett, rivela lo stesso regista Julian Rosenfelt, è nata dopo che l’attrice ha interpretato Bod Dylan nell’anomala biografia Todd Haynes I’m Not There in cui vari uomini e donne lo impersonano in momenti diversi della sua vita. «Quel modello ha ispirato in parte il film, che in verità ho iniziato lavorando sui testi: volevo che fossero, pur nella estrema diversità, complementari tra loro in qualche modo, e che insieme rispondessero alla domanda base che dell’intero progetto: qual è il ruolo dell’artista nella società contemporanea? I testi di tutti questi teorici e artisti, architetti, danzatori e, filmakers, riuniti insieme hanno dato vita a una sorta di “manifesto dei manifesti”».
Un esperimento particolare, intelligente, pieno di idee di regia, che si poteva reggere però solo sulle spalle di un’interprete completa e di incredibili virtù trasformiste. Cate Blanchett non è solo la protagonista del film, ne è l’anima visibile e magnetica, infaticabile ed eclettica, mai sopra le righe. L’idea principale di Manifesto non è illustrare i testi, (scelti da un panorama iniziale di 60 teorie, ndr.), ma permettere a lei di impersonarli. Lei è i manifesti e il film ne mette in risalto la componente performativa e l’importanza politica di queste dichiarazioni: scritti spesso in eccessi di rabbia giovanile, i testi esprimono il desiderio di cambiare il mondo attraverso l’arte, e riflettono la voce di intere generazioni. «La cosa in comune – ha detto Rosenfelt – è che un’unica donna facesse di ciascuno un monologo: a volte la sentiamo parlare fuori campo, in altri casi si indirizza a un pubblico, una volta intervista se stessa, e così via. La performance di Cate attraversa classi, luoghi e generi sessuali, in un’insieme di parole, mondi, contraddizioni, sincronie. E ciò che veramente conta, più che ciò che viene detto, è come viene detto. Lei mi ha sorpreso ogni giorno con le sue idee, che provenivano dalla profondità della sua grande esperienza e dall’incredibile talento. Del resto, l’ho già descritta in passato come un’artista-scienziata alla ricerca della condizione umana».