Dieci ragioni per ricordare il regista portoghese, scomparso a 106 anni. Basterebbe la prima: in 38mila giorni di esposizione mediatica ha sempre sorriso
Manoel de Oliveira, il maggior regista portoghese e uno dei più grandi d’Europa e del mondo, è morto ad Oporto il 2 aprile e la notizia è arrivata con un tweet, mezzo che ignorava. Aveva 106 anni, 3 mesi e 21 giorni e aveva lavorato fino all’ultimo. Non è mai stato in vetta al box office, ma ha vissuto in diretta col cinema, dal muto al digitale. Il Portogallo ha proclamato due giorni di lutto nazionale (per Fellini avremmo dovuto fare una settimana). Ecco 10 ragioni valide, non certo le uniche, per ricordarlo e rivedere i suoi 50 film magari a notte fonda su Rai3.
1. In 38.801 giorni di esposizione mediatica ha sempre sorriso, lasciamo stare l’ultima mattinata con lo sguardo sul panorama della sua Oporto, il fiume col ponte Eiffel. Era il sorriso sapiente, saggio, non superficiale di chi, mentre invecchiava e diventava intoccabile reliquia da issare nei festival, dimostrava di capire sempre meglio cosa si nasconde dietro le apparenze. E’ l’arte, è il teatro che ci rivelano la vita, è il cinema come una ballata di fantasmi. Perché faccio film? «Non lo so: è come chiedermi perché respiro». Idem per lo spettatore: perché piace? Perché riconosciamo che dentro le sue parole e le sue immagini c’è una ragione, un pensiero, la ricerca di qualcosa mai trovata.
2. Ci piace perché era un illuminista col dubbio (non a caso amava madame La Fayette e la sua Principessa di Cléves) e gli piaceva assai il termine portoghese saudade che per lui non voleva dire solo nostalgia, come nelle vecchie canzoni del Quartetto Cetra, ma speranza, fiducia nel futuro. Molti dei suoi oltre 50 film sono situati in un presente storico indefinito, a mezzo servizio tra ieri ed oggi.
3. Manoel ci piace perché ha incominciato ad essere riverito autore di rilevanza internazionale dopo i 60 anni, quando Salazar, il dittatore del suo paese, con cui si era sempre guardato in cagnesco, ha tolto il disturbo, cacciato dai mazzi di garofani della notte senza fine del 25 aprile 74. Prima aveva fatto altro, il suo papà aveva tentato di interessarlo alla passamaneria, industria di famiglia benestante, ma lui si era dato, prima ancora che al cinema (che era muto quando era giovane) allo sport, diventando corridore d’auto da corsa: De Oliveira fast and furious, chi l’avrebbe detto?
4. Ci piace moltissimo pensarlo come il gemello di Buñuel: entrambi allevati dai gesuiti, entrambi col dono naturale della metafora, dell’ironia e della sintesi. Se don Luis diceva «grazie a Dio, sono ateo», don Manoel esprimeva un simile concetto nelle architetture dei suoi film andando a scovare sintomi di eternità dove possibile, magari in un interminabile testo di Paul Claudel (Le soulier du satin), nella Bovary rivisitata e corretta della Valle del peccato, nella notte prima della battaglia di re Ferdinando, nel singolare racconto fatto da uno sconosciuto in treno (come nell’Oscuro oggetto del desiderio). Saggio e pessimista come Buñuel, aveva perfino girato l’”impossibile” sequel di Belle de jour.
5. Dobbiamo elencare i 50 titoli? Molti in Italia non sono arrivati o si sono posati su una locandina per pochi giorni e giacciono in qualche polverosa scaffalatura di dvd invenduti. Se Francisca e Passato e presente sono i film che lo hanno fatto scoprire in Italia all’inizio degli anni ’70 (ripartendo dalla Mostra di Venezia, che gli ha dato due Leoni nel corso del tempo), noi siamo affezionati ad altri più recenti: Un film parlato, capolavoro su una metaforica crociera in cui una professoressa dà lezioni di storia mediterranea alla sua figlioletta mentre alcune signore (madame Deneuve, madame Papas e la nostra Sandrelli) conversano amabilmente alla tavola del capitano Malkovich, ciascuna parlando la propria lingua, tema attualissimo. E come nel profetico felliniano E la nave va, c’è un finale col botto che lascia senza fiato. E’ la new Arca di Noè vista a fine corsa per la civiltà d’Occidente.
6.Aveva il suo produttore di fiducia (Paolo Branco) e una sua compagnia-famiglia di attori quasi fissa (Leonor Silveira e Luis Miguel Cintra, la De Medeiros) e, data l’età, c’era un poco di nepotismo, appena appena per scritturare un nipote, peraltro bravissimo, Ricardo Trepa. Ma ha avuto anche grandi ospiti d’onore, non solo la Deneuve, la Cardinale e la Moreau (in Gebo e l’ombra) ma l’amico Michel Piccoli, interprete di un altro film memorabile (con un lungo dialogo in cui inquadra le scarpe), Ritorno a casa, nel ruolo di un attore che dopo un tremendo lutto, lascia il teatro e anche la vita, due cose per De Oliveira legate per sempre. E aveva portato con sé in Viaggio all’inizio del mondo il caro Marcello Mastroianni, al suo ultimo set: nel documentario biografico di Anna Maria Tatò lo si vede proprio mentre fuma e conversa, conversa e fuma sui panorami portoghesi.
7. Lo si amava De Oliveira anche per la disponibilità signorile e mai disattenta con cui si offriva al rito sacrificale delle interviste durante le decine di festival cui ha partecipato, con la sua paziente signora, spesso vincendo e sempre salendo e scendendo di corsa le scalinate impervie di Cannes o di Venezia, facendo correre i paparazzi. Sempre Monicelli lo guardava sconsolato: «Io sono vecchio ma vengo sempre superato dal portoghese, quello lì, come si chiama…».
8. Geniale, diceva che i mezzi del cinema sono materiali, ma le immagini poi sono immateriali, come ciò che comunicano: il suo cinema è una riflessione sull’umanità con libertà di andate su e giù per la Storia e le storie, con incroci, scorciatoie, detour in molti campi, soprattutto la letteratura. Vegliardo aveva riscoperto la Divina Commedia (una rilettura in chiave grottesca) e in un altro film, I Misteri del convento, il prof. Malkovich Goethe, Shakespeare (che si vorrebbe ebreo di origine spagnola, come altrove cercherà di dimostrare i natali portoghesi di Cristoforo Colombo), Omero e Nietzsche. Per dire che il cinema è un crocevia di arti, tra cui il teatro, vera rappresentazione della vita.
9. Avendo trascorso più di 100 anni in compagnia del cinema, ed essendo intelligentemente aperto ad ogni influsso perché la storia è sempre in divenire, De Oliveira aveva avuto i suoi periodi, anche quello godardiano in cui gli attori guardano in macchina e il pubblico in platea: come dicono i massimamente snob, è il film che ci guarda, non viceversa. Francisca, uno dei suoi cult, è il capitolo finale di una tetralogia che parla di delusioni d’amore in aperta trasfusione di sangue emotivo dal melò.
10. Ha vinto tutti i premi possibili, la casa ne era stracolma: Leoni, Palme, Pardi, Orsi e David e nastri, efebi d’oro, premi ecumenici, della Fipresci, i premi Bresson e poi medaglie, targhe, coccarde, riconoscimenti alla carriera come se piovesse (tutti pregustando la sua morte in scena, come nelle migliori occasioni). La sua longevità era diventata una scommessa con promessa di immortalità (mantenuta alla grande) e regolare fino all’ultimo la produzione, un film all’anno come Woody Allen. Girare era respirare. Parlando del suo cinema e della sua vita (veniva da una popolosa famiglia ed un’altra gli sopravvive ora) faceva sua una frase di Spinoza: «Ci crediamo creature libere, perché ignoriamo le forze, gli impulsi che impediscono le nostre azioni». Una bella ossessione.