Il quarto episodio del serial pucciniano diretto da Riccardo Chailly alla Scala è firmato da David Pountney che mette in scena una Manon disintegrata in tante controfigure, molestate a turno dai loschi figuri
La Manon del vagone letto, adulterio sull’Orient Express, la cortigiana che guardava passare i treni: senso dell’umorismo in riserva domenica sera alla Scala, per il quarto episodio del serial pucciniano di Riccardo Chailly. Le battutacce da foyer erano per Manon Lescaut, che il regista David Pountney, contestato, ha ambientato in un’impressionante stazione Art Nouveau disegnata da Leslie Travers su cui si apre il sipario, che servirà poi da banchina per la nave nel terzo atto e da “landa desolata” surrealista per il finale, con un orologio belle époque abbandonato tra le dune.
L’instabilità della scena diventa così instabilità dei personaggi del primo capolavoro di Puccini, opera splendidamente incoerente tratta dal roman-mémoires dell’abate Prévost, “uomo di qualità” che il mondo, a furia di spretarsi, l’aveva conosciuto bene. E con poco meno di due secoli di anticipo ha descritto una Mimì a cui basta mezz’ora di musica per scoprirsi Carmen (passando per Violetta), tragicamente avviluppata al cavalier-studente Des Grieux che non può fare a meno del “don fatale” di lei, tanto da seguirla nel Nuovo Mondo solo per vederla morire di sete nel deserto: un finale che sembra insensato solo a chi non ha cuore né orecchie per sentire la necessità di questa Liebestod all’italiana. Anche se, a dirla tutta, un deserto in Louisiana non è mai esistito.
D’altro canto era impossibile per il pubblico milanese non lasciarsi coinvolgere dalla morte d’amore della protagonista, dopo aver sentito per la prima volta il postludio sinfonico che segue il suo lamento, “Sola…perduta…abbandonata!”, nella versione scelta da Chailly e curata da Roger Parker per Ricordi. Le coordinate sono: Torino, 1893. Come al solito il direttore punta all’ispirazione originale, prima di tutti i ripensamenti, tagli, aggiunte, varianti e oppure che in Puccini ricorrono per ogni opera: tanto che, di Manon Lescaut, ce ne sono addirittura otto. Oltre alla romanza del quarto atto, la novità è il finale del primo atto, con un complicato concertato, caotico in senso stravinskiano e che sembra anticipare l’organizzato trambusto che Puccini svilupperà nel secondo quadro della Bohème.
L’intenzione di Chailly era quella di seguire quell’ossessione wagneriana di Puccini che nella Manon Lescaut affiora continuamente, con citazioni esplicite del Tristan-Akkord che il direttore ha sottolineato ogni volta, forse più a livello intellettuale che emotivo. Da una parte perché le progressioni cromatiche di un passaggio come il duetto del secondo atto, per fare un esempio, sono sì wagneriane nella filosofia ma sono italiane nella fattura, per di più discendenti anziché ascendenti, come fa notare Fedele d’Amico, che contrappone alla “sublime catarsi” di Isolde e Tristan lo “sprofondamento carnale” di Manon e Des Grieux: quindi “tristanizzare” Manon sembra possibile fino a un certo punto. Dall’altra perché la direzione di Chailly dà forse il meglio nelle grandi scene d’insieme e nei momenti frenetici, più che in quelli di intimità. Così di questa Manon si ricorderanno soprattutto le livide atmosfere della scena dell’appello con il magnifico coro di Bruno Casoni, il convulso fugato che segue il duetto d’amore del secondo atto, o ancora la disperazione finale di Manon, non più privata e interiore ma universale, oggettiva e quindi, nella lettura di Chailly, ancora più terribile.
Peccato solo che i due protagonisti non siano sempre all’altezza di tali richieste. Maria José Siri canta correttamente ma senza vere ragioni drammatiche, sia come Manon-Mimì sia come Manon-Carmen; anche se, a dover scegliere, funziona sicuramente meglio nel “profondo deserto” che nelle “trine morbide”. Più in difficoltà Marcelo Álvarez, che non sembra riuscire a legare una frase con una dinamica, una mezzavoce o almeno un’espressione che non sia sempre concitata. Ottimi invece il Lescaut di Massimo Cavalletti e il Geronte di Carlo Lepore. Buona prova di Marco Ciaponi, onnipresente in scena come Edmondo, Maestro di ballo e Lampionaio.
Quanto allo spettacolo, la regia di Pountney ha il problema di avere molte cause e pochi effetti. Tanto che si fatica a seguire un racconto che vorrebbe rievocare la vicenda come flashback di Manon, la quale è oltretutto disintegrata in tante piccole controfigure, molestate a turno dai loschi personaggi che si approfittano di questa (anti)eroina più amorale che immorale. Scelte contorte che mancano di efficacia: così i momenti migliori dello spettacolo si riducono ad alcune parentesi più spiritose, ma marginali rispetto all’azione. Come l’intrusione di Settecento all’inizio del secondo atto, in cui il regista sembra mettere in scena una specie di Cagliostro in Wien (bravissimi i musici; anzi, bravissime) sullo sfondo di tre lussuosi vagoni in sezione, buffo omaggio al music-hall e all’operetta.
Fotografie © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala