A due anni di distanza dal volume che si propose di ricostruire una geografia storica e poetica dell’Italia, Franco Marcoaldi e Tomaso Montanari tornano a far dialogare immagine e parola per compiere un periplo dell’identità italiana. Ne esce un libro che è una sorta di guida educativa, uno specchio di ciò che siamo, complesso e multiforme: “Il nostro volto” (Einaudi).
L’arte come tessuto connettivo. Lo sconfinamento tra linguaggi come sistema.
Eppure non è solo quello che sembra, il libro che Franco Marcoaldi, poeta e scrittore, e Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per gli stranieri di Siena, firmano per Einaudi: perché cercare di leggere Il nostro volto – Cento ritratti italiani in immagini e versi come un libro di storia dell’arte e della letteratura è un errore.
Due anni fa, e in un mondo decisamente differente, Cento luoghi di-versi. Un viaggio in Italia, pubblicato da Treccani, era stato un volume che aveva avuto l’ambizione di ricostruire una geografia storica e poetica della Penisola; oggi i due autori sono tornati a confrontarsi in un lavoro a quattro mani: ma non è l’ideale quello che interessa a Marcoaldi e Montanari; e neppure una prospettiva cronologica.
Il loro intento lo dichiarano subito, nella scelta che fanno in apertura: a destra, in perfetta e inarrivabile fissità, la Giovanna Tornabuoni ritratta da Domenico Ghirlandaio sembra traguardare la sua pagina verso le parole che campeggiano nel foglio a fianco, esattamente all’altezza del suo sguardo. L’epigramma di Marziale, tradotto, è lo stesso contenuto nel cartiglio in latino che si trova alle spalle della donna nel dipinto:
Oh se potesse l’arte ritrarre l’indole e il cuore!
Nessun quadro al mondo sarebbe più bello.
L’indole, dunque. Si può leggere questo libro come la volontà di mettere a fuoco, attraverso un doppio sguardo, la natura di una idea (una nazione), di un luogo (l’Italia), di noi italiani visti attraverso il tempo, i costumi, le realizzazioni artistiche più significative, gli atti della storia quotidiana, i volti.
E l’indole, ricorda Leon Battista Alberti, altro non è che il temperamento dell’individuo nell’insieme delle inclinazioni naturali che lo caratterizzano; qualcosa che, etimologicamente, accresce l’uomo, e cresce dentro l’uomo.
Se tra il dipinto di Parmigianino e i versi di Marziale c’è una risonanza, però, sono le due parole in calce a segnare il cortocircuito nel nesso che le lega: Irraggiungibile ideale sembra, a un tempo, la constatazione dell’evidente impossibilità di appellarsi a una Musa (forse perché non è più tempo? forse perché una non basterebbe?), ma è anche una dichiarazione di intenti.
In duecento pagine di fotografie, stralci di prosa, riproduzioni pittoriche, testi di canzoni, incisioni, poesie, immagini d’epoca e da reportage contemporanei, il percorso che Marcoaldi e Montanari hanno architettato è una sorta di lungo peristilio che si va facendo negli occhi e nella mente di chi sfoglia le pagine in una dimensione di costante relazione, quasi la provocazione di un flusso di coscienza.
Il risultato è complesso, e aperto.
Coerente, ma mai comodo. Alto di intenti, a tratti spiazzante, schietto.
Per questo bisognerebbe leggere questo lavoro come un libro di educazione civica, perché ragiona e fa ragionare di quella cosa così complessa con cui avere a che fare oggi che è la nostra identità.
La domanda che ne scaturisce non è solo quanto assomigliamo a ciò che siamo stati, ma anche (e forse in modo più civicamente compromettente, e produttivo) quanto assomigliamo a ciò che siamo.
È, insomma, una operazione di consapevolezza quella che Il nostro volto si propone di fare, e lo fa tirando fuori dai nostri occhi lo sconcerto e la sorpresa, il ricordo e la rilettura, il noto e l’ignoto, il meraviglioso e il ridicolo.
Se, come scrive Paulo Freire, Il compito dell’educazione è quello di coscientizzare, perché la nostra coscienza è spesso ingenua, passiva, intransitiva, quello che con più evidenza scaturisce da queste pagine è la dimensione della multiformità, della varietà, della molteplicità e della contraddittorietà che partecipa della natura di ciò che è italiano.
Contaminazioni e dialogo come perimetro di una cultura formano, di necessità, un io a identità plurale, e le associazioni tra immagine e parola scelte da Marcoaldi e Montanari mostrano il dramma e la bellezza, la leggerezza e la nostalgia, tracciando un mosaico non privo di angoli e di diversioni.
Ci sono donne: donne che scrivono, che baciano, che si stendono sui cuscini per farsi ritrarre, che cantano, che gioiscono e che denunciano. E uomini sconsolati che parlano con i quadri, che fanno teatro e cinema, che scrivono e che ci guardano. Perfino cani, ci sono, e poi gatti.
Ma è anche, Il nostro volto, una galleria di nomi che hanno fatto l’Italia: sono gli stessi che occupano bravi e ordinati i capitoli delle lezioni scolastiche, ma che qui si lasciano evocare per lembi, abbandonano le pose plastiche e sgusciano dai paragrafi che gli vengono dedicati per occupare uno spazio diverso.
Così Gian Lorenzo Bernini, lontano da baldacchini e colonne tortili, traccia con irresistibile perfidia due caricature in punta di pennino – e a questa sua alzata maliziosa risponde nella pagina accanto Aldo Palazzeschi ritraendo in versi Giannetto Pergolìa (sottotenente di cavalleria) con la medesima graffiante leggerezza di sillabe e tratto; di Leopardi si va alla preistoria: la sua statua si volge verso la descrizione minuta, quasi predittiva, degli Affetti di un disperato di Giambattista Vico; Salvator Rosa non con la tavolozza ma con la sua metrica furibonda risponde al quadro spietato di Tiziano (Voi che in alto sedete,/ tremate, temete); e Ilaria Cucchi compie l’ostensione della foto del fratello Stefano accanto alla garbata, illuminante, spaventosa precisione della poesia di Alessandro Fo, Alta sicurezza.
Testi di canzoni, frammenti dei libretti d’opera, foto d’epoca, fotogrammi di film, particolari di quadri e di statue, arte antica e Rinascimento fulgido, operai dell’Ilva e aspiranti miss Italia: Il nostro volto è un libro che ha uno svolgimento orizzontale più che verticale, nel senso che si interroga (e ci interroga) sulla dimensione sincronica di ciò che ci circonda e ci rappresenta, e da cui ci facciamo rappresentare.
Trent’anni fa un piccolo e preziosissimo lavoro di Marco Delogu, Ritratti etruschi (Stampa Alternativa), esercitava la relazione tra passato e presente appaiando foto di terrecotte antiche a ritratti di uomini e donne contemporanei: il risultato era stupefacente per vicinanza e rispecchiamento, quasi le linee dei volti istituissero una sorta di doppiaggio reciproco, all’impronta. Un lavoro di prossimità che, tra riconoscimento e dissonanza, permetteva di accedere a una diversa concezione di tempo, di attimo e di eternità.
Con la stessa libertà, Il nostro volto si muove in una dimensione tematica nella quale viene da interrogarsi sul senso della relazione tra ieri e oggi: così Ghirlandaio dialoga con Toti Scialoja a proposito della circolarità dell’esistenza, Giordano Bruno con la prima pagina di “Repubblica” ai funerali di Giovanni Falcone (dove Rosaria Costa, divenuta vedova di Vito Schifani, per sempre grida: “Mafiosi, inginocchiatevi”), Alessandro Manzoni con sé stesso immortalato nelle banconote da centomila lire e nell’autoritratto in forma di sonetto in cui dà conto, in definitiva, di conoscersi ben poco (ma chi lo sa: dobbiamo credergli?).
E c’è politica, in questo volume: politica come rappresentazione, e politica come necessaria interpretazione. Poiché la civitas, la cittadinanza, è un insieme di relazioni e scaturisce da scelte e idee, e la politica è il sistema nervoso di un paese: farne parte significa far parte di una storia, volerle bene, appartenere, conoscere (si parlava, prima di educazione e di coscienza civica).
Come tutti i libri che decidono di assumersi il compito di rispondere a una domanda che attraversa il tempo (cos’è un paese? cosa siamo oggi?), il dato dell’urgenza si lega non casualmente al momento storico che stiamo attraversando.
“Noi oggi non siamo più semplici rappresentanti di una nuova generazione storica di uomini, ma, benché anatomicamente invariati, siamo esseri appartenenti a una nuova specie, a causa del cambiamento radicale della nostra posizione nel cosmo e verso noi stessi” scrive il filosofo Günther Anders.
In tempo di crisi guardare allo specchio della propria storia, dei costumi, della politica – in una parola, dell’indole – è un modo per prendere le misure e, contemporaneamente, per non lasciarsi sfuggire dei punti di riferimento preziosi:
“(…) nella consapevolezza che nessuna chiave di accesso, da sola, consente di arrivare a una presa dell’occhio e della mente, certa, definitiva; a maggior ragione di fronte a un puzzle (l’Italia, gli italiani) perennemente in fieri”.
Così, dunque, nel congedo dell’ultima pagina de Il nostro volto, dal naufragio che portò sulle spiagge del Lazio Enea al corpo sfinito di un giovane migrante addormentato a Ventimiglia, il futuro appartiene a ciò che, una volta aperti, quegli occhi vedranno. A ciò che potranno vedere. A ciò che gli sarà mostrato.