I primi cinquant’anni dello Studio Marconi

In Arte

Storia di un gallerista, dalle cornici al gotha dell’arte contemporanea: Giorgio Marconi celebra i cinquant’anni di attività mettendo in mostra i “suoi” artisti

L’11 novembre 1965 Giorgio Marconi inaugurava il suo Studio in via Tadino 15 a Milano. Suo padre, Egisto, forniva le cornici a Sironi, Morandi e Carrà. Lui, Giorgio, sarebbe rapidamente diventato uno tra i più attenti e intelligenti galleristi in città. Accadeva mezzo secolo fa e da allora molta acqua è passata sotto i ponti, anche per il rio dell’arte. La storia (ancora in corso) di Marconi e della sua galleria si può ripercorrere ora, attraverso le opere degli artisti che ne hanno segnato il percorso, alla mostra 1965-2015. 50 anni dallo Studio Marconi alla Fondazione Marconi.

Mario Schifano, Paesaggio anemico, 1965. Courtesy Fondazione Marconi
Mario Schifano, Paesaggio anemico, 1965. Courtesy Fondazione Marconi

Camminando per le due sale al primo e al secondo piano della Fondazione, si è continuamente tirati per la giacchetta, dal passato e dal presente. Complice di questo procedere sincopato è la mostra stessa, ospite di artisti molto diversi, che trovano però degli agganci, vuoi anche solo formali, in sede espositiva. Allora il lavandino rosa di Valerio Adami amoreggia con la mensola dorata di Lucio del Pezzo, le due lancette di Mario Schifano ammiccano alle geometrie di Gianfranco Pardi e la griglia di William T. Wiley ritorna nel Cementarmato di Giuseppe Uncini: quasi si giocasse a una sorta di memory. Ma le analogie abitano anche altri territori, come quello del soggetto: il tema del mito è affrontato da Man Ray e Giulio Paolini, quello dello spazio da Lucio Fontana (chi lo avrebbe mai detto?) e Antonio Dias; Sonia Delaunay e Richard Hamilton ci parlano di moda da posizioni diametralmente opposte. Oppure legami biografici, laddove il polistirolo dell’allievo Gianni Colombo fronteggia la lamiera del maestro Fontana.

Emilio Isgrò, Codice ottomano delle tempeste, 2010. Courtesy Fondazione Marconi
Emilio Isgrò, Codice ottomano delle tempeste, 2010. Courtesy Fondazione Marconi

Considerando le 22 opere esposte, non si può fare a meno di riflettere sulle temporalità dell’arte, ovvero di come spesso l’opera delle generazioni immediatamente precedenti possa sembrare così antiquata, quando va male, o tanto attuale, quando va bene. Il Paesaggio anemico di Schifano potrebbe essere, a partire dal titolo, il manifesto delle generazioni a cavallo del duemila; mentre il Personnage fort troublé par la situation politique di Enrico Baj sembra appena fuggito dalla piazza della stazione di Ankara.

Solo due opere sono databili al terzo millennio: Il bello e il buono di Aldo Spolli, che conclude simpaticamente la rassegna, e il Codice ottomano di Emilio Isgrò. Il peggior incubo degli scrittori ha colpito ancora, e questa volta a rimetterci le lettere è un testo dalla grafia araba, abitato da tante formichine non immediatamente riconoscibili, facili metafore dell’umanità.

 

1965-2015. 50 anni dallo Studio Marconi alla Fondazione Marconi, Milano, Fondazione Marconi, fino al 31 ottobre

Immagine di copertina: Enrico Baj, Personnage fort troublé par la situation politique, 1962. Courtesy Fondazione Marconi

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