L’umanità assediata dall’inquietudine, vestita di normalità, sull’orlo (perenne) di un precipizio. In dodici magistrali narrazioni brevi Margaret Atwood (tradotta da Gaja Cenciarelli per Racconti edizioni) traccia l’affresco di un mondo pervaso da quotidiane dannazioni, nel quale ribellione, fuga, dolore attraversano la vita di personaggi in bilico con sé stessi. “L’uovo di Barbablù” – appena arrivato nelle librerie – è un gioiello di controllo e tensione.
Anche la più banale evidenza del quotidiano può sempre celare una possibile, nascosta insidia. Poiché nulla – né la vita di un modesto paese, né ciò che comprende gli occhi di una bambina, e tanto meno le parole che corrono tra un uomo e una donna – è a interpretazione univoca.
Come nelle fiabe più scopertamente adulte, trascorse da una mai celata perfidia, lo scopo è quello di istigare all’attenzione (poiché l’insegnamento è che ogni cosa va misurata, e non solo per ciò che appare), così Margaret Atwood mette in scena una umanità che cammina nella propria esistenza senza poter mai veramente rilassarsi, e nemmeno trovare conforto nell’altro.
Non sarà certo un caso se la raccolta fresca di stampa (nelle librerie è arrivata a metà giugno) pubblicata da Racconti edizioni sceglie per titolo quello della novella centrale del libro, che fa riferimento a una delle fiabe meno rassicuranti della storia della letteratura popolare: L’uovo di Barbablù.
“Il potere della letteratura è quello di spalancare mondi” afferma Gaja Cenciarelli, che ha curato la traduzione dei dodici racconti che compongono il volume (e ne parla approfonditamente qui): il mondo costruito da parte di Atwood, con precisione mondata di ogni indulgenza, è un cosmo abitato da una serpeggiante inquietudine.
Una scrittura che non fa nulla per farsi piacere, a tratti mostra anzi gli angoli, sempre con compostezza (ma: implacabile), non dà niente di più di quel che vuole, ed è misurata anche nelle piccole rivelazioni del quotidiano.
È proprio in un microcosmo di provincia, presuntamente normale, in un tempo che è sempre al presente anche quando ricorda un passato recente, che si acquartiera lo sguardo obliquo dell’autrice.
Nel mondo di Margaret Atwood non c’è epica né eroismo, ma la promessa di una ferita sempre possibile.
E così, procedendo di storia in storia, ci si rende conto che non è la scrittura ad essere spigolosa, ma è la nuda concatenazione di cause ed affetti umani che ne scaturisce a fare male. Un male diffuso con grande generosità: nelle relazioni e nei rapporti, nelle frasi interiori, nel lessico familiare – persino nei paesaggi. Nulla viene velato o sfumato.
Di primo acchito, nei primi due racconti, si ha l’impressione di essere davanti ad una autobiografia a puntate, perché l’apparente e possibile continuità tra i personaggi induce all’equivoco.
Ci sono già tutti i nuclei importanti delle storie successive: le solitudini interiori, lo sfratto dell’affettività dai gesti quotidiani, la discrasia tra la percezione e l’azione; e, ancora e soprattutto, il divario tra maschile e femminile, che appare come naturalmente incommensurabile.
Ecco, per esempio, in che modo il luogo fisico diventa proiezione interiore, e insieme memoria e rifugio, nel bellissimo Momenti significativi nella vita di mia madre
“La struttura della casa era gerarchica, con mio nonno in cima, ma la sua esistenza segreta – la vita della pasta sfoglia, le lenzuola pulite, la scatola degli stracci nel cassetto della biancheria, le pagnotte nel forno – era femmina.
La casa, e tutti gli oggetti che conteneva, sfrigolavano per l’elettricità statica, la risacca la attraversava, l’aria pesava di cose risapute ma non dette. Come un tronco cavo, un tamburo, una chiesa, era un amplificatore, così che ancora oggi si riesce a sentire l’eco delle conversazioni sussurrate sessant’anni fa”.
Accoglienza ventilata e possibile vulnerabilità camminano a braccetto: più alto è il salto, più ci si fa male cadendo. In questo meccanismo Margaret Atwood è maestra.
Lo sguardo dei suoi personaggi compenetra la realtà, si avvicina per gradi alla conoscenza (di sé e dell’altro), intuisce ciò che c’è sotto: un non detto che non è mai comodo né tenero; a tratti, anzi, è brutale, ma di una violenza mai esibita, che al massimo scappa fuori, balugina nella crudeltà di certe frasi, nei lividi della violenza domestica subito cancellati alla vista dall’intervento di qualche vicina di casa, nell’aggressione di sponda di una ex fidanzata che sa di vendetta transazionale.
Tutto è misura, anche nel male, nel cosmo di Atwood. Il risultato è una dannazione pervasiva.
Quanto alla galleria degli esemplari maschili (che siano un traditore impenitente, un marito apparentemente devoto, una intera combriccola di intellettuali, un adolescente goffo e corto di comprendonio – ma preciso quanto a pulsioni primarie), questi non potrebbero essere più diametralmente opposti rispetto alla componente femminile, che li subisce, o li evita, o li supporta “nonostante”.
Il sesso è semplicemente un preliminare sociale, ma è anche il terreno in cui si consuma una differenza di ruoli e di determinazione.
E questo avviene fin dall’adolescenza.
Negli occhi di una ragazzina che “si adatta” a un fidanzato di cui percepisce perfettamente i limiti e la distanza, accettare in dono un braccialetto identificativo (il nome di lui portato a spasso sul corpo di lei, che ne diventa così proprietà) è il momento in cui lo sbilanciamento diventa consapevolezza.
“Non avevo la minima intenzione di rifiutarlo; sarebbe stato impossibile, perché non sarei mai stata in grado di spiegare cosa ci fosse di sbagliato nell’accettarlo. Inoltre, sentivo che Buddy ora aveva un ascendente su di me: adesso che casualmente aveva visto qualcosa che mi riguardava davvero, conosceva le mie deviazioni dalla normalità. Sentivo di dover in qualche modo correre ai ripari.
Mi venne in mente, anni dopo, che molte donne probabilmente si fidanzano o addirittura si sposano seguendo questa trafila”
Se le azioni vanno per inerzia in una direzione convenzionale ma i pensieri non cessano di deviare, un fatto è che, al lettore, non viene mai offerta l’opportunità di vedere risolta la crisi: la ribellione è già avvenuta, o soffocata, o consumata in solitudine. Ne consegue uno stato di tensione perenne, che è una delle caratteristiche più spiccate di questa raccolta.
Per quanto diversi e singoli, i personaggi delle storie di Margaret Atwood fanno parte di un fondale coerente, nel quale partecipano a incarnare in infinite variazioni la difficoltà del mondo percettivo.
Tutti i personaggi sono in qualche modo danneggiati.
Tutti vestono di bugie una segreta disperazione.
Tutti nutrono un desiderio di fuga, molti lo mettono in atto.
E tuttavia, davanti alla sconfitta, non insistono mai.
L’inconoscibilità, intima e reciproca, è il tradimento che le parole portano con sé, la difficoltà del comprendere la parte e il tutto.
Come ben sancisce uno dei protagonisti de Loulou o della vita domestica del linguaggio:
“Il punto era, a detta di Phil, cosa c’era nello spazio tra Loulou e il suo nome?”