L’ultimo libro di poesie di Maria Borio, Trasparenza, uscito per Interlinea, è un terreno di sperimentazione nel quale la parola perde connotazione: alle soglie dell’antilingua, un corpo a corpo nello sforzo di dire l’indicibile.
Poesia per una realtà possibile (e quindi condivisibile) versus poesia in una lingua trasparente, o dell’antilingua. È questa forse la sfida che vale la pena di accettare oggi, in questo nostro tempo così virtuale e autoreferenziale, ed è la riflessione che scaturisce dalla lettura, nello specifico, all’ultimo libro di poesie di Maria Borio, Trasparenza, uscito per Interlinea alla fine del 2018.
La silloge, abbastanza voluminosa, è divisa in tre sezioni e queste in sottosezioni. I titoli delle varie sezioni e sottosezioni – il puro, l’impuro, il trasparente, e poi video,leggende, il tutto amare liquido, la camera del suono, il cielo – sono già indicativi di una certa astrattezza. Il tono complessivo è tendenzialmente discorsivo, colloquiale, raziocinante:
«Ma dicono che oggi il peso del tempo è irreale / assomiglia all’aria spostata dagli insetti / che si nutrono di sangue e muoiono a volte / sotto il palmo della mano» (p. 9)
I versi liberi dei componimenti non di rado si distendono con la misura lunga del verso in prosa. Anche la divisione strofica è legata a ragioni soggettive più che a schemi formali prestabiliti. Nella versificazione, coerentemente all’andamento prosastico, non hanno rilievo gli aspetti ritmici e fonici (assenti le rime, rarissime le assonanze).
Il soggetto non è sempre ben definito: si passa dall’io al tu al voi al loro in modo imprevedibile, e il lettore fa fatica a raccapezzarsi:
«Sapersi avvicinare. / Così vediamo l’enigma della distanza / dal posto in cui si addensano i luoghi che ci hanno abitato. / Inizio chiamando le isole d’erica e ghiaccio […] // Chiedete nudità. Le scogliere si aprono / più a sud in un prato piatto / e gli animali sono immobili […] pensavi alla loro bicromia» (p. 12). «Il presente è verde umido, la bocca di Bilbao e la sua vena / come quando i sentimenti in ognuno camminano filtrati / l’esperienza ha tappe e arresto: la ripresa dell’auto nella pioggia / quella a cui tendiamo per passione depositata» (p. 47).
Non aiuta in tal senso la difficoltà a individuare riferimenti spazio-temporali precisi o referenti concreti che, anche quando presenti, si dissolvono velocemente in un andirivieni continuo tra interiorità ed esteriorità in cui saltano i nessi semantici che legano una frase all’altra:
«Vedi i riflessi camminare, la finestra è il bacino: / il conducente inchiodato o poche gocce / in un lago di montagna piegano l’acqua // come i pensieri e il posto. L’acqua è fatta di uomini, / il vetro impenna, gli atomi sono creatura e storia / in un passaggio». (p. 17); «è quasi pronto, sta per passare / la vita nell’aumento / della proprietà con un distacco, una ricompensa / fedele a sé, solo il giglio viola dal prato / non vale perché dura un giorno» (p. 69).
A tratti l’andamento paratattico e l’enumerazione di elementi scollegati tra loro generano effetti di nonsense e di agglutinamento semantico che rischiano di alienare ulteriormente il lettore dal testo:
«un treno spinto nella terra, la folla muore, / fa nascere la punta della freccia, taglia, / o un tuo ricordo, un lago azzurro di montagna / – altri ideogrammi. La condensa della finestra / era un’iride o gli occhi chiusi, annegati». (p. 17).
Si potrebbe quindi parlare di una poesia che tende verso l’alto, nonostante l”orizzontalità’ del tono colloquiale; una poesia che vuole distanziarsi dai significati ordinari, che tende a sublimare affetti e concetti in astrazioni non tanto attraverso l’uso del lessico quanto attraverso la sintassi e la destrutturazione della coesione del discorso ordinario.
Questa spinta verso l’alto potrebbe essere utile all’autrice per prendere le distanze dall’io che scrive e si espone, oppure da una realtà vissuta come troppo limitante alla ricerca di significati più autentici.
Tuttavia l’io risulta sempre ben presente (non che questo sia necessariamente un male) e può capitare di percepirlo paradossalmente tra le righe in una posizione di controllo e potere sulla realtà, in una posizione – usando un’espressione un po’ ossimorica – di delicata supponenza conoscitiva verso il reale, realizzata proprio attraverso l’evidente e insistita torsione del linguaggio. Così quest’ultimo non ha più funzione referenziale e comunicativa (di condivisione quindi) ma solo espositiva, di esibizione di un qualche sapere cognitivo-affettivo difficile da cogliere (per chi legge) e da comunicare (per chi scrive).
Traspare quindi per lunghi tratti una concezione quasi ‘mistica’ della poesia come dono elitario di difficile accesso, come spazio della soggettività fatto di significati difficili da decodificare e comunicare, come una certa sicurezza e perentorietà delle espressioni più astratte e oscure lascerebbe pensare:
«La forma è, non è ciò che volete / io dia. È, non è il divenire.» (p. 5);
«il muscolo è una persona / quella persona un bisogno» (p. 27);
«questo essere soli è essere di tutti» (p. 69).
Dinnanzi a questa rarefazione, torna alla mente quanto scriveva Calvino sull’“antilingua”, una modalità comunicativa fatta di sintassi contorta e parole vaghe e astratte che non serve a comunicare quanto a non comunicare. Certo, sosteneva Calvino nel saggio omonimo, a volte i significati sono così difficili o poco definiti che sarebbe ipocrita pensare di poterli esprimere in modo chiaro e univoco; ma può la poesia oggi essere ancora il campo in cui si parla ‘difficile’, passata ormai l’esperienza di varie correnti letterarie (surrealismo, ermetismo, neoavanguardia) con le loro forzature linguistiche e semantiche, in un contesto storico-culturale che comunque rendeva comprensibile e perfino significativa quell’operazione?
E soprattutto, immaginando che ciò possa tuttora avere senso, è comprensibile insistervi per un intero libro al punto da perdere di vista completamente le potenzialità comunicative del linguaggio comune? È una domanda che un lettore può farsi leggendo, oltre a quelli già citati, versi del tipo:
«Come un olio che si espande e l’aria è un’acqua / le nostre immagini si abitano. Nella distanza / ognuno potrebbe toccare l’altro / se spinge aria precipita nell’aria / l’idea dell’altro» (p. 22); «Il cielo a volte è una coscienza. / Può aver preso anche noi questa notte – strappava le pareti bianche della casa, la pelle, / ingoiava la vena interna» (p. 24); «e dal letto lasci il sesso arrampicarsi / attorno ai contorni di questo edificio / nel suo bianco sotto raggi tempesta» (p. 30); «la voce umana delle ginocchia non respira e non chiede» (p. 56).
Seppur in modo meno marcato, tali aspetti caratterizzano anche le poche e brevi prose che aprono la seconda sezione del libro, in cui l’autrice si distende in una misura che le è probabilmente più consona:
«sugli escrementi degli uccelli e nei voli la migrazione che dispone schieramenti e collidono come asteroidi» (p. 37); «Del male che guardandoci facciamo bruciando: l’incandescenza fonde i ricordi, fondono la vita avanti un passo» (ibidem).
L’oscurità si riaffaccia infine anche nella nota che chiude il libro, momento in cui di solito un autore, spiegando o chiarendo al lettore qualcosa del testo e uscendo quindi dalla pura finzione letteraria, tenderebbe a tornare ad un linguaggio più ordinario:
«Il puro, l’impuro e il trasparente raccontano la trasparenza: il trasparente è la sintesi, il puro e l’impuro sono la tesi e l’antitesi. La sintesi del mondo digitale è il grande vetro attraverso cui traspaiono il puro e l’impuro mescolati, l’umano e il non umano, la velocità e la prospettiva. L’uno altro limite dell’altro» (p. 133).
Certo, non è sempre così. In qualche occasione l’autrice lascia trapelare di sé qualcosa di più personale, di più emotivo, situazioni e flash di ricordi particolarmente delicati come nella poesia Lettera:
«Forse che un morbo scava / da fuori la camera sembra irreale, / il dolore del corpo si appoggia all’aria / nessuna gravitazione, nessun peso.»; «questo che era noi è noi, passato, futuro / in una voce pura il corpo sottile // fino a quando non restano dentro a un’immagine lontana / corpo e voce intrecciati, scie dopo la pioggia» (p. 34).
Sono situazioni abbastanza rare, ma quando questo avviene, quando l’io poetico ha l’ardire di esporsi maggiormente, gli esiti sono molto convincenti e intensi, sia in termini di capacità evocativa che si pregnanza dei contenuti.
Se la poesia spesso si allontana dalle forme abituali del linguaggio, se ama sondare aree nascoste del sé difficili da esprimere, deve comunque sempre sforzarsi di inquadrare quella realtà di modo che anche altri possano coglierla; in sostanza, di non dimenticare la funzione comunicativa del linguaggio e di ogni forma d’arte.