L’ossessione della normalità all’interno di una struttura familiare costruita nell’esilio della norma. Un bambino invisibile. La complessità che salva. Nel nuovo romanzo di Mariapia Veladiano una voce narrante condotta con la tensione di un giallo: un uomo che l’infanzia ha danneggiato incontra una terapeuta sopravvissuta. Quando nelle loro vite appare un ragazzino misterioso, tutto ciò che era stato rimosso si rimette in moto. E un enorme segreto viene a galla.
Angeletto Zoccolaro è diventato avvocato per riparazione. Bianca, psicologa da sopravvissuta.
Per entrambi l’infanzia è stata l’inferno, e ciascuno ne è uscito a modo proprio: Angeletto congelando i ricordi, Bianca elaborando. Lui è abitato dall’oscurità che lo lambisce, lei, di contro, sull’oscurità di ciò che è stato ha costruito la sua luce.
Così, strato per strato, si rivelano i protagonisti del nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, Quel che ci tiene vivi, pubblicato da Guanda: due polarità, in apparenza, che rimangono insieme per attrazione, ben attente a non sbordare nelle ferite individuali.
Il rapporto con il passato, ovvero con l’infanzia, è il nucleo intorno al quale si dispiegano le vicende dei personaggi, legate entrambe al luogo di origine del male che li ha, in maniera diversa, attraversati.
Le case che Angeletto e Bianca vivono sono quelle in cui si è originato ciò che li ha cambiati per sempre, e il modo in cui vi hanno inserito la continuità della propria vita, nel tempo del dopo, rivela molto di ciò che la tragedia ha lasciato nelle loro menti: se Angeletto opera un minimo intervento di consolidamento, dunque di riparazione all’interno di una struttura lasciata sostanzialmente com’era, Bianca al contrario agisce in modo diversificato: ricompone pochissimo di ciò che era, e per il resto mette in atto sulla sua casa un restauro di rinnovamento e di liberazione.
È proprio nell’ambiente domestico, del resto, che il bambino costruisce la propria identità, che viene in contatto con la relazione familiare – e, dunque, con la misura della differenza.
C’era un silenzio irreale. Le case dei ricchi hanno finestre che tengono lontano il rumore del mondo. I primi tempi, quando restavo la notte da lei, non riuscivo a dormire, il silenzio mi dava angoscia. Nella casa verde oliva si sentiva tutto di tutti. I vicini calabresi che ridevano, erano allegri, il televisore acceso, il letto che colpiva la parete del nostro bagno quando facevano l’amore e io mi appoggiavo con la schiena al muro e immaginavo. E poi si sentivano le moto degli uomini che rientravano al bar, e le automobili, porte sbattute, chiavi girate con prudenza nelle porte. E anche gli animali. Di notte alcuni animali si svegliano e fanno quello che noi facciamo di giorno. Cercano cibo, vanno in giro, fanno famiglia. L’avevo scritto in un tema e la maestra l’aveva letto in classe. Le era piaciuto. Io ci ero vissuto un mese.
La voce narrante è quella di lui: che non dovrebbe, dice, però racconta; che ha guadagnato un ruolo all’interno di un contesto sociale di prestigio, però continua a sorvegliare le parti del suo passato che non corrispondono al modello che ha raggiunto; che si rivolge a Bianca per entrare in terapia con lei, però che ne diventa amante compagno e marito – continuando in parte a non crederci.
È questo che Mariapia Veladiano fa con la voce di Angeletto: si cammina dentro una tensione, al bordo di una faglia interiore, scendendo nelle contraddizioni più profonde di un uomo che, neanche a dirlo, al contrario del nome non è né biondo né minuto, e della leggerezza non ha conosciuto che il nome nella sua vita di bambino.
Quella che tutti chiamano normalità per me era inarrivabile, come era stato per i miei genitori, che ne erano ossessionati. Se mi sottraevo alla loro ombra, io ero solo.
Ecco allora un altro, fortissimo tema di questo libro, ovvero la questione della genitorialità consapevole: quanto dolore due adulti possono ingenerare in un figlio? Quanta omeopatica, quotidiana, micidiale dose di crudeltà e costrizione, di violenza agita senza spargimento di sangue?
Nella ricostruzione che Angeletto fa del suo passato (e nella gestione del tempo, e dei piani di narrazione di questa storia attraverso l’io che acquista parola interiore, Veladiano è maestra) prende corpo l’invisibile decostruzione della presenza del figlio all’interno della famiglia: il bambino che non mangia, che non disturba, che è come non averlo, che sta in una scatola, che adora la madre ma non può chiederle nulla, è pure un bambino che va a scuola e cammina per strada.
Eppure, pur esistendo, il dolore che lo abita, e che gli lascia addosso infiniti segnali, non viene visto dal mondo adulto – al punto che da solo, e doppiamente dimenticato, assisterà all’apocalisse del proprio nucleo famigliare.
Se la famiglia è il luogo in cui dovrebbe avvenire il trapasso dell’affetto, esiste in sostanza una maturità esatta data dalla capacità adulta di comprendere, curare e accogliere: cosa, questa, che la nascita di un figlio mette a nudo nelle dinamiche tra genitori. Tuttavia non è, questa, storia che indulge nella palude del morbo (né, tantomeno, che costruisce vittime inerti nei confronti dei processi evolutivi).
Così, come già in Adesso che sei qui, Mariapia Veladiano apre ai suoi personaggi un sistema di relazioni fortissime, complesse, non anagrafiche ma elettive – contrappuntate dall’apparizione di animali (cani beagle, golden, gatti e perfino nutrie) che sono parabole sulla sopravvivenza sociale.
La tensione che porta alla conoscenza degli strati più oscuri del passato di Angeletto (e, in parte, di Bianca) si accompagna costantemente al secondo piano della narrazione di questo romanzo: quello nel quale all’avvocato, una sera, proprio nelle vicinanze della sua casa d’infanzia, si presenta un bambino: solo, magro, dallo sguardo incandescente, svelto di parola e – come Angeletto intuisce – in fuga.
Di fatto, come appare (scegliendolo, dunque dando inizio a un meccanismo di riconoscimento e di rivelazione) così, velocemente, scompare. Nella ricerca di questo bambino, nei pensieri che gli ingenera, nell’inchiesta che l’avvocato istruirà, ci sarà la chiave che apre le porte di rimozioni profonde. E, ancora una volta, oltre la memoria sedimentata, il passato richiederà di essere guardato alla luce di un gesto estremo.