Un noir psicologico tra gallerie d’arte e ascensori che si aprono su pianerottoli oscuri sempre troppo deserti, in una Milano in cui la solitudine si consuma come un inferno civilissimo e urbano. E poi la periferia e i capannoni abbandonati, dove tutto è possibile: anche che il mondo dell’alta finanza incroci l’universo degli invisibili, perché nessuno rimanga innocente. Il nuovo romanzo di Marina Visentin, “Aurora”, esce per la collana Calibro 9 di Laurana, mentre Tommaso Agnese porta sulla carta “Un uomo ordinario” per Affiori di Giulio Perrone editore. Milano, tra spettri buzzatiani e burelli algidi alla Scerbanenco, è ancora una musa angosciata e minacciosa.
Marina Visentin, Aurora (Laurana)
“Gemma ha costruito la sua vita indipendente, una casa a sua immagine e somiglianza, un lavoro tanto bello da essere invidiabile.
Sono rimaste le ombre, un corteo che la segue ovunque vada, come compagnia indesiderata. Anche qui, nell’androne del palazzo dove abita”.
Tutto, in Aurora, il nuovo romanzo di Marina Visentin, si basa sul rifiuto. Gemma non vuole più tollerare l’affetto troppo protettivo del socio Livio; non riesce a reggere oltre gli amori melodrammatici dell’amica Marcella; non ce la fa più a stare con il fidanzato a distanza, Roberto, che abita sul lago tanto detestato.
Ogni presenza che lambisce la sua vita rappresenta per lei una possibile violazione: e così è sulle spine, sempre, anche nella galleria d’arte che gestisce, anche nel rapporto con la rete di inviti e clienti e vernissage in cui si fanno le sorti del lavoro, e perfino con le opere (perché quando il destino ci si mette, sa essere creativo nel procurare fonti di segrete destabilizzazioni).
Quindi, sarà perché il tema di Ofelia tocca le corde più profonde della sua inquietudine, ma le giornate in galleria cominciano a farsi pesanti: cresce il disagio, e si fa angoscia, in mezzo alla selva di donne a pelo d’acqua, ossessivo e funebre tema con variazioni dell’allestimento nel quale le tocca passare le ore (un allestimento che, tra l’altro, e inaspettatamente, riscuote un successo tale che le risulta ancora più difficile giustificare l’insofferenza).
Quotidianamente inchiodata tra le detestate Ofelie, cresce in Gemma la necessità (irrazionale, in apparenza, e tutta da gestire) di sganciarsi dal panorama di “morti fuori scena”, per ripararsi tra le pareti del proprio appartamento; ma la chiacchierata con il vicino di casa (che tutti spia e con nessuno è in relazione) le rivela che c’è qualcuno che fa domande su di lei, mentre la portinaia impicciona conferma di aver registrato qualche movimento non conforme: il pianerottolo, l’ascensore, le scale, i marmi del palazzo nel quale vive diventano una sorta di passaggio infernale e i luoghi conosciuti, quelli della sua intimità calmata dagli eventi della vita, sono improvvisamente il teatro di una possibile insidia. È esagerata? Sta impazzendo? Una paranoia?
La città – una Milano buzzatiana densa di notti e pertugi – mostra ombre e presenze inintelligibili: nei cocktail alla moda, tra volti pur noti, Gemma percepisce la ferocia sotterranea dei discorsi, e il suo sguardo insiste (in un movimento macchina che si fissa sui particolari come dentro l’obbiettivo di una camera a mano) sui denti aguzzi e sulle bocche, sempre troppo rosse. È l’Inferno, molto civile e composto, in cui Gemma si ritrova a gestire a fiotti il ricordo greve della sua infanzia, quando era Gemmina e poi (quasi Dracula ci mettesse lo zampino) Mina.
Quale è il vampiro che le avvelena la vita, dunque? Braccata da un ricordo troppo duro che la tormenta, disconfermata nella sua capacità di controllo da una serie di coincidenze e atti che aumentano la sua tensione, Gemma da spiata si ritrova inseguita.
L’incubo appartiene alla luce: mentre la città si affretta con chiasso e frenesia al rito del Natale, nessun contorno noto si rivela più tale. E Gemma sperimenta il terrore.
Tommaso Agnese, Un uomo ordinario (Affiori)
“E allora io penso che è giusto sedermi su quel sedile comodo perché finalmente il mondo si è accorto di me. Non mi resta che mettere in moto e darmi un tono. Ingrano la marcia, il rombo del motore è assordante. Da troppo tempo sono rimasto relegato nel nulla cosmico, forse è giunto il momento della mia rivincita”.
Invisibile, dedito, desolato. Lino Marini è un analista della Duane Bank, numero tra numeri.
Una vita sull’orlo della depressione, edificata su un passato pieno di vergogna e frustrazioni: con una madre sempre troppo ingombrante (anche da defunta) e la compagnia di un perenne senso di inadeguatezza. In una parola, Marini, sotto l’apparente insignificanza, è un grumo di rancore.
E però è la banca, quell’impiego che lo rende per l’ennesima volta invisibile ai colleghi e a sé stesso, che lo mantiene in asse: così, quando riceve un format di gradimento da compilare, lo fa nella perfetta ambivalenza della sua coscienza; prima mente, e poi dice troppo di sé.
Sarà quel questionario, però, la chiave per la definitiva svolta nella sua vita: desidera una macchina potente? Si ritrova recapitata una Porche 911 turbo. Ritiene di poter essere altro? In una catena misteriosa di eventi, la sua vita viene investita dalla morte violenta dell’amministratore delegato, il decantato Carlo Ridolfi, barbaramente assassinato.
Come in un meccanismo a catena, l’accettazione della mail, e della macchina, e di un invito inusuale è l’innesco di un rituale di trasformazione.
Milano è potere e suburra, e tutto quello che può accadere, accade nella terra di mezzo: la periferia abbruttita, i capannoni dismessi, i luoghi di nessuno dove lo Stato non arriva se non in forma di corruzione.
C’è una donna disposta a tutto pur di riscattarsi, un pericoloso capobranco che prima pesta e dopo parla, un traffico sotterraneo che macchia ogni cosa, e la sensazione che risalire alle responsabilità – al misterioso Luigi Favre – sia qualcosa di molto pericoloso. Nessuno, di certo, in questo hard boiled finanziario, resta innocente.
Partito come concept per una serie TV, Un uomo ordinario firmato da Tommaso Agnese è approdato nella collana Affiori, marchio di Giulio Perrone.