Mario Martone: ogni lavoro è una tabula rasa

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A tutto campo con il regista, reduce da due mesi a Milano tra Piccolo e Scala : il rapporto con Napoli tra avanguardia e tradizione, le contaminazioni e le autonomie tra i territori – cinema, opera e teatro – che frequenta, le passioni da Bob Wilson a Rossellini, il suo amato Leopardi che avrebbe potuto andare agli Oscar. E poi una certa concretezza e un progetto ancora misterioso….

A marzo La morte di Danton al Piccolo: terrore e miseria della rivoluzione francese, con trenta attori a seguire le parole di Büchner tra il velluto di sei sipari. Poi La cena delle beffe alla Scala in stile Padrino, con il building newyorkese di quasi venti metri costruito da Margherita Palli. Due mesi di Mario Martone a Milano, omaggiato persino con una rassegna di film e spettacoli alla Cineteca Italiana. E pare che, per il regista nonché direttore artistico del Teatro Stabile di Torino, ci sia in cantiere una nuova pellicola, di cui però ancora non può dire niente. Questo non ci impedisce di tornare sui suoi cult, a volte leopardiani, altre volte matematici, molto spesso napoletani.

 Pochi sono riusciti a rappresentare Napoli così. Basta un’inquadratura, una luce particolare e viene fuori la città intera. È Napoli che ha qualcosa di diverso?
Gli aspetti antropologici e sociali di Napoli la rendono unica. E poi c’è il dialetto, da cui deriva la forza dei suoi attori: come gli attori inglesi hanno Shakespeare, gli attori napoletani hanno Eduardo e Viviani, con quella lingua quasi incollata al corpo. Chi recita in italiano ha un’esperienza diversa, perché usa una lingua fresca e recente. Invece il napoletano è sempre stato teatralmente vivo. Ma se da un lato è un’identità che dà forza espressiva alla città, dall’altro la rende autoreferenziale e la mette in difficoltà anche nei processi di trasformazione artistica. Per questo il mio rapporto con Napoli è sempre stato molto aperto alle avanguardie, per trasmetterle poi per osmosi alla mia città.

Ma come si rappresenta tecnicamente questa particolare atmosfera?
Ho sempre avuto uno sguardo attento sull’arte, soprattutto contemporanea. Il mio riferimento era il gallerista Lucio Amelio, a cui ho dedicato anche il documentario Lucio Amelio/Terraemotus. Amelio ha avuto una tra le più importanti gallerie del mondo: pensa che è stato lui a organizzare l’incontro tra Andy Warhol e Joseph Beuys. Ed era radicatissimo in città. Così appena venivano questi grandi artisti lui subito li portava in giro, per le strade del centro oscuro di Napoli. Ecco il rapporto che ho sempre voluto avere con Napoli: uno sguardo che deriva dalla tradizione, ma allo stesso tempo in cerca di altri punti di vista. Non ho mai voluto mascherare la tradizione, anche nel senso più nobile, considerando che avrei potuto muovermi nel solco di Eduardo e di Roberto De Simone. Così il mio rapporto con Napoli è come un’immersione e una fuga continue.

In generale il suo lavoro si divide tra cinema, teatro e opera. Cosa sceglierebbe?
Non sceglierei un bel niente. Sono diversi cantieri che non si escludono, e in ognuno c’è un’articolazione autonoma. Del resto non puoi fare cinema o teatro senza tenere a mente le loro leggi ferree.

Allo stesso tempo in tutti i suoi lavori si vedono delle contaminazioni. Basta pensare alla regia de La cena delle beffe alla Scala, trattata come un gangster movie americano.
Sono tre cantieri distinti con tante porte aperte fra loro, ma non può non esserci autonomia. La cena delle beffe è uno spettacolo che cita il cinema, eppure rimane la messinscena di un melodramma: non si può fare un’opera se si ignora la centralità della musica. A volte si dice che il regista di opera ha troppi vincoli che lo limitano, perché se il regista teatrale ha solo il testo davanti a sé, all’opera c’è anche la musica. Ma se i testi da seguire sono due, questo permette non un’addizione, ma addirittura una moltiplicazione di possibilità.

Come si pone nell’eterno dibattito sulle regie d’opera: tradizionali o moderne?
Tutto è legato alla vitalità sul palcoscenico. Ci sono spettacoli in cui si rovescia l’ambientazione che mi piacciono moltissimo e altri che non mi piacciono per niente, oppure spettacoli di impronta tradizionale che mi commuovono e altri che mi annoiano. Perché tutto funzioni serve curare il rapporto con la musica. Purché valga ciò, posso decidere di fare un’opera in costume d’epoca o di cambiare completamente il contesto, non importa: per me ogni lavoro è una tabula rasa. Non si mette mai prima lo stile: per questo gli spettacoli che ho fatto sono molto diversi tra loro. Ma se oggi mi volto indietro intravvedo una coerenza, anche se non è ricercata.

Modelli e i riferimenti che aveva quando ha cominciato?
Lo spettacolo fondamentale della mia vita è stato Einstein on the beach di Bob Wilson, visto a Venezia quando avevo sedici anni. Bob Wilson mi ha mostrato le possibilità di un teatro completamente diverso che non potevo nemmeno immaginare: mi ha aperto il campo.

E andando avanti, quali sono stati gli incontri teatrali della sua vita?
Sicuramente Carlo Cecchi, che considero un genio, ma come ogni genio non va mai preso alla lettera: devo sempre rielaborare quello che dice. Il suo è uno dei pensieri più vivi e liberi che ci sono in Italia, e non solo dal punto di vista teatrale.

Al cinema?
Al cinema mi ha segnato l’esperienza di Rossellini. Anche per lui ogni film era una tabula rasa. Ammiro il fatto che non si sia mai formalizzato. Si è persino lanciato in esperimenti televisivi difficilissimi per quegli anni.

Perché molti si riferiscono a Visconti quando parlano del suo lavoro?
Visconti è stato il grande regista italiano di teatro, musica e cinema, quindi forse viene spontaneo visto che sono anche i miei campi. Poi c’è il rapporto con la storia, che è importantissima nel mio lavoro.

Le piacciono i suoi film?
Alcuni molto, altri sinceramente meno. Mi sarebbe molto piaciuto poterlo vedere a teatro.

E oggi chi le piace al cinema?
Siamo in un momento piuttosto vivo del cinema italiano. Sorrentino, Garrone e Virzì, che appartengono a una fascia generazionale simile alla mia. Poi ci sono sempre Bertolucci, Bellocchio e Amelio. E tra i giovanissimi, ragionando ancora per triadi, direi Alice Rohrwacher, Francesco Munzi e Gabriele Mainetti col suo primo lungometraggio Lo chiamavano Jeeg Robot. La cosa importante è che queste diverse generazioni comunicano tra loro.

Fra i suoi progetti, qual è il suo preferito?
Forse Il giovane favoloso, tenuto conto della difficoltà del tema (qui la lettera del regista al direttore della fotografia Renato Berta, inedito pubblicato da Cultweek al debutto on line, ndr). A film fatto è facile immaginarsi come fare un film su Leopardi, ma all’inizio è stata una sfida folle. Però ne è valsa la pensa visto anche il suo risultato clamoroso, con oltre un milione di spettatori.

Poteva essere il candidato italiano agli Oscar 2016?
Era in effetti tra i candidabili, ma la commissione ha scelto Non essere cattivo. Mi chiedo però come sarebbe stato avere non Martone, ma Leopardi agli Oscar. È una domanda che non avrà risposta, ma rispetto le scelte della commissione.

E il progetto peggiore?
Woyzeck con Vittorio Mezzogiorno: fu un fiasco. Sono contento di parlarne dopo aver fatto La morte di Danton, che è andato molto bene: avevo molta paura a rimettere le mani su Büchner. Io e Vittorio desideravamo molto lavorare insieme, ma qualcosa non funzionò. Sicuramente sono stato io a non mettere bene a fuoco il testo, non so.

C’è un progetto che sogna di fare ma non osa ancora?
Io sono molto concreto: se mi viene un’idea nella testa è difficile che poi non la realizzi. Non sono di quelli che si fanno la propria filmografia immaginata. Le cose che mi si accendono di solito le perseguo.

E le idee che si accendono hanno caratteristiche comuni? Magari letterarie?
Non necessariamente. Non tutti i miei film derivano dalla letteratura. C’è però in effetti un elemento creativo che ritorna: spesso i protagonisti sono artisti o persone di grande inventiva. Caccioppoli era un matematico, Leopardi un poeta, in Teatro di guerra ci sono degli attori, ne L’odore del sangue c’è uno scrittore. Mi interessano le persone che creano, che fanno.

Oppure ci sono film che le vengono in mente grazie ad altri lavori. Per esempio Il giovane favoloso segue lo spettacolo sulle Operette morali.
Sono i cantieri di cui parlavo prima: distinti ma con le porte aperte. Dopo aver scritto con mia moglie Ippolita la drammaturgia delle Operette morali abbiamo avuto la spinta per la sceneggiatura de Il giovane favoloso. Sicuramente senza lo spettacolo non avremmo fatto il film.

Anche se non ha una poetica unitaria, ci sono delle costanti nel suo modo di lavorare?
Parto sempre dallo spazio, a teatro, al cinema e all’opera: devo immaginare lo spazio in cui si svolgerà la regia e preparare il terreno. Poi il terreno diventa un campo di forze aperto all’incontro: penso che il regista sia una figura a metà tra un contadino e un mago. Non ho mai voluto imporre agli attori come dire le battute, anche perché non sono un attore. Ho bisogno piuttosto che siano gli attori e i cantanti a portarmi qualcosa. E questo campo non prevede solo gli attori ma anche gli spettatori, che spesso coinvolgo spazialmente, come se tutto il teatro o tutto il set fossero il contenitore del campo di forze. Poi accada quel che deve accadere.

Immagine di copertina: Mario Martone, foto di Marco Ghidelli (Per l’immagine si ringrazia il Teatro Stabile di Torino)

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