Mario Merz, Odìsseo errante in un mare di leggerezza

In Arte

La Fondazione Merz di Torino presenta, fino al 6 ottobre 2024, la mostra dedicata a Mario Merz dal titolo Qualcosa che toglie il peso, frase estrapolata da uno scritto dell’artista che si ricollega alla necessità di guardare alla natura e allo scorrere del tempo per poter raggiungere un senso di leggerezza concettuale. Che si ritrova nel nucleo di opere presentate, tra vino e miele, animali fantastici, rotte segnate e mondi da esplorare.

“(…) io estrassi la spada affilata e scavai una fossa lunga un cubito e larga altrettanto. Intorno ad essa versai, per tutti i defunti, una libagione, miele mescolato con latte, vino dolcissimo e acqua; tutto cosparsi con bianca farina. Poi supplicai le vane ombre dei morti, e promisi, tornato a Itaca (…) di sacrificare a parte, per Tiresia soltanto, un ariete nero, il migliore del gregge.”
Omero, Odissea (canto XI), a cura di Maria Grazia Ciani, Grandi classici tascabili, Marsilio, Venezia, 2014.

Somigliano un po’ a Odisseo e a Tiresia, Mario Merz e Harald Szeemann nel video dell’intervista del 1985 che accompagna la mostra Qualcosa che toglie il peso, alla Fondazione Merz di Torino fino al 6 ottobre prossimo. Tiresia, evocato con le altre anime dell’Ade da Odisseo, beve il sangue dei sacrifici per acquistare la forza di vaticinare all’eroe ramingo il suo prossimo, drammatico futuro. La persecuzione da parte di Poseidone per aver accecato suo figlio Polifemo, la morte dei compagni, il ritorno solitario a Itaca, la strage dei Proci, altri mari su cui navigare, la vecchiaia e la morte. Ulisse, dopo Tiresia, incontra l’ombra della madre, che tenterà di abbracciare senza riuscirci, condannato al suo vagare solitario, pieno di ombre e di orizzonti infiniti.

Mario Merz, L’horizont de lumiére traverse notre vertical du jpour, 1995. Neon, vetro, vino, miele, dimensioni variabili. Foto Andrea Guermani, courtesy Fondazione Merz.

È Tiresia Harald Szeemann, indovino sciamanico dell’Arte contemporanea che, abbeveratosi al sangue sacrificale dell’opera d’arte sgozzata dagli artisti, incalza dolcemente ma decisamente l’Odisseo che fu Mario Merz, che definiva se stesso navigatore dell’arte, schiavo di un percorso erratico tra isole e tempeste, tra Ilio, Circe e Itaca. Epifania umanissima dell’esistenza nella sua forma più simbolica, verso l’impossibile Illuminazione in vita in cui è il viaggio stesso a sostituire l’irraggiungibile meta. È Odisseo, Mario Merz, come la sua maschera umana dava ad intendere, occhi stretti, sopracciglia folte e incurvate, larga mandibola, bocca severa, espressione rude dallo sguardo tenero. È Odisseo quando, come il suo predecessore antico, innalza all’altare del quotidiano, della vita stessa, il vino e il miele in clessidre che cristallizzano il tempo in un atto di eterna cura sospesa, di continua celebrazione degli spiriti degli inferi, su un tavolo di vetro e acciaio che non a caso è quello su cui poggiava il telefono di casa Merz. Linea diretta con il mondo dei vivi, continua evocazione, altrettanto diretta, del mondo dei non vivi.

Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso. Veduta della mostra. In primo piano: Quattro tavole in forma di foglie di magnolia, 1985. Cera d’api e tecnica mista su 16 tavoli in acciaio saldato. Sulla parete: disegno inedito su tela, data incerta. Courtesy Fondazione Merz.

È Odisseo legato all’albero della sua nave in perenne esplorazione, la cui rotta tracciata è la vera linea che unisce e unifica tutto il suo lavoro, sempre diverso, sempre lanciato verso irrefrenabili desideri di scoperta. Incontra sirene e animali fantastici, bestie mitologiche apparse su tele grezze che accolgono, prima che la figura, il gesto magico dell’Artista, la sua scrittura automatica da cui emerge il montone nero sacrificale per il prossimo incontro, apparendo a lui per primo come, poi, a tutti noi.
Come appaiono, a Mario Merz prima, e a noi, la sua ciurma, poi, le isole del sogno, quelle che i comuni mortali possono solo rintanarsi a dipingere quando fuori piove. Dopo il sacrificio con miele e vino, da cui “l’orizzonte della luce attraversa la nostra verticale del giorno”, ecco un igloo coperto di foglie d’albero e foglie d’oro, natura e cultura, corpo e spirito, cerchio magico immerso nel tempo mitico, né troppo piccolo né troppo potente, in equilibrio tra potenza e impotenza del nostro stare al mondo; appare l’arcipelago inesplorato di “Quattro tavole in forma di foglie di magnolia”, dalle rotte sinuose coperte di simboli e ricordi di viaggio; e tutto attorno scritture rapide e animali simbolici, pterodattili, bovini sacrificali in attesa del loro passaggio.

Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso. Veduta della mostra. In primo piano: Senza titolo (Foglie d’oro), 1997, struttura metallica, rete in nylon, paraffina, foglie d’oro, foglie. Courtesy Fondazione Merz.

È un’Odissea quella che si dipana in questa mostra, che prende il titolo da una citazione dello stesso Merz quando chiede “qualcosa che toglie il peso” della proliferazione, della continua ricerca, della curiosità, dell’arroganza, forse, per stare sull’analogia con il suo antenato omerico. Ed è certamente, lo spunto narrativo, prima omerico che antropologico, nonostante il rimando all’amato Lévi-Strauss. Perché è qualcosa che appartiene al mito, prima che all’inconscio, che è di più e meglio perché collettivo, condiviso, archetipico ed eterno. Omerico navigatore dell’Arte, Mario Merz, amato e odiato come Odisseo, letteralmente “Colui che è odiato” o “colui che odia”. Che sapeva odiare ed essere odiato. Amare ed essere amato. E che chiedeva, senza ottenerla, la leggerezza che lo togliesse da quel “vivere come un tappeto volante (…) che mantiene l’assurdità e la leggerezza della favola”. O, per nostra eterna fortuna, del mito.

Mario Merz. Qualcosa che toglie il peso. Fondazione Merz, Torino, fino al 6 ottobre 2024.

In copertina: Mario Merz, Quattro tavole in forma di foglie di magnolia, 1985 (dettaglio), courtesy Fondazione Merz.

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