Fino al 19 maggio prossimo è aperta la mostra “Mario Schifano. Compagni in un’oasi sotto il cielo stellato”, a cura di Monica Schifano e Marco Meneguzzo allo Spazio Roseto di Milano, ex convento di Sant’Anna dei Teatini, gioiello nascosto nel cuore della città. La mostra presenta per la prima volta dipinti realizzati tra il 1966 e il 1968 mai esposti al pubblico fino ad oggi, un’occasione imperdibile per tornare alla magia del grande artista italiano, tra sognanti cieli di stelle e inevitabili viaggi a Marrakesh.
Rubando il claim di una nota pubblicità, si potrebbe dire che le mostre dedicate a Mario Schifano non finiscono mai. A volte il troppo stroppia e talvolta fa comodo affidarsi all’usato garantito, ma va riconosciuto che esistono preziosi casi in cui inaugurare nuove esposizioni schifaniane pare inevitabile – una parola chiave su cui si tornerà. Uno di questi casi è “Mario Schifano. Compagni in un’oasi sotto il cielo stellato”, visitabile dal 17 aprile al 19 maggio 2024 nel milanese Spazio Roseto, sede espositiva voluta da Roseto SRL e Harves. Organizzata da Art Relation di Milo Goj in collaborazione con l’Archivio Mario Schifano, la mostra curata da Marco Meneguzzo e Monica Schifano, infatti, presenta al pubblico pezzi mai esposti prima d’ora. Ospitato nei vecchi chiostri di Sant’Anna dei Teatini – fondazione religiosa ormai demolita e sconosciuta ai più che passano di fianco ai suoi rimasugli in corso Garibaldi – Spazio Roseto accoglie in questo mese alcune opere del pittore libico-romano mai uscite prima dalle case di committenti e collezionisti.
Ci si può, così, per la prima volta immergere nel liricamente stordente spazio di “Tutte Stelle” che Schifano concepì per la principessa Patrizia Ruspoli nel 1967. La pittura di Schifano è un fatto puramente bidimensionale, sia per il forzato appiattimento dei materiali e dei colori sulla tela, sia per il rifiuto della profondità spaziale nelle scene: tutto vive, convive in superficie e si offre con immediatezza alla retina. La pura visione frontale e istantanea, come fossimo seduti sul divano a guardare della pubblicità in tv, è quello che Schifano al tempo stesso offre e chiede. “Tutte Stelle” a questa tipica bidimensionalità indotta aggiunge, tuttavia, le dimensioni dello spazio fisico da noi abitato e del tempo: se sostassimo, fermi davanti alla tela, muovendo solo l’occhio su ciò che ci sta davanti, ci perderemmo gran parte dell’opera, che inevitabilmente (non doveva ricomparire ora, questo termine, ma l’ha fatto) rimane alle nostre spalle, al nostro fianco o sopra la nostra testa. È uno Schifano che nelle segrete stanze principesche – Meneguzzo parla di “studiolo rinascimentale” – si scatena e aggiunge livelli deformanti. Al vagare dell’occhio e della mente si somma quello del corpo che in questo cielo totale si muove senza appigli, se non, di nuovo, quelli visivi: la luce delle stelle, i colori delle scie. È una tridimensionalità corporea chiamata in causa per essere subito sconfitta dalla piattezza bidimensionale della pittura: bisogna saper perdere e addirittura godersi la défaillance e lo spaesamento; ballare sotto un cielo sfortunato.
Un’altra opera del 1967 ugualmente mai esposta prima è “Inevitabile viaggio a Marrakesh”, ed ecco l’inevitabile che, inevitabilmente, ritorna. Con le sue porte e finestre sparpagliate su otto pannelli, questo enorme polittico ci illude di lasciarci una qualche possibilità di scelta: entrare, uscire, sostare sull’uscio, socchiudere, riaprire, far sbattere le tende sui vetri. Ma recuperando, dopo lo studiolo Ruspoli, una frontalità assoluta e incombente, di libertà e di scelte Schifano ce ne lascia ben poche: la regia è sua, il viaggio l’ha organizzato lui e noi possiamo solo seguirlo, affidandoci a tutte – tutte! – quelle sue stelline come fossero la Polare. È un riaffermare il piano pittorico dopo lo spazio tridimensionale tentato da Schifano; tentato e riuscito, sia ben chiaro, proprio perché è riuscito a ingannarci di poter e voler essere qualcosa che non è. Era inevitabile che la pittura trionfasse.
Tra l’ambiente dipinto che apre la mostra e il polittico che la chiude si trovano altri paesaggi tempestati di stelle, alcuni “Compagni” e le palme delle “Oasi”. Queste ultime stanno saggiamente una attaccata all’altra, fitte, senza concedere spazio alla parete tra un quadro e l’altro, nel tentativo di recuperare in una spavalda schiera bidimensionale l’impossibilità della profondità. È come se i legionari romani, invece della testuggine, si fossero avvicinati a noi ordinandosi su un’unica linea lunga kilometri: le loro spade ci avrebbero colpiti senza nemmeno lasciarci il tempo della preoccupazione e della paura, troppo impegnati, noi, a ridere di quella loro disposizione quasi infantile e casuale; una morte serena, naif. La pittura di Schifano – colorata, elementare, intuitiva – è così: sembra quasi impossibile subirne ogni volta il colpo, ma la ferita c’è, si allarga sempre più, devi continuare a prestarle attenzione.
Tra i politicanti “Compagni compagni (bleu)” e i “Compagni compagni” in rosso, entrambi del 1968, spunta un’omonima tela inedita in cui i “Compagni” sono due figure nere amalgamate e indistinguibili che si baciano un po’ invidiabilmente, un po’ ridicolamente su uno sfondo di palme gialle e verdi puntellato di stelle. Tra le falci e i martelli, questa coppia à la Hayez va piuttosto a braccetto con un appunto che nel luglio del 1955 Giorgio Manganelli aveva scritto nel suo diario: “Non sono diventato comunista. Non ci riesco”. Come nello schieramento di palme e nell’ammasso di stelle, l’importante è non essere soli; poi, che il compagno sia di partito o di cuore poco importa.
Mostrando alcune fotografie di “Tutte Stelle” a un’amica poco avvezza alla pittura del Novecento italiano il suo commento è stato: “Che bella cosa che sei andata a vedere”. Nel catalogo della piccola mostra di Spazio Roseto, Meneguzzo scrive espressamente che “Mario Schifano è così: tocca i due estremi coprendo tutto l’arco di ciò che sta in mezzo. È per questo che è popolare. È per questo che è elitario”. Nell’eterno dibattito su cosa renda davvero grande un artista – avere degli eredi, i prezzi delle opere, la quantità di mostre fatte in vita o di retrospettive post mortem – una risposta la danno, forse, Meneguzzo e la mia amica insieme: la grandezza di un artista risiede (anche) nel riuscire a essere apprezzato un po’ da tutti, senza troppi intellettualismi: in maniera frontale. Come disse Schifano stesso a Gibellina nel 1984, se tutti sono – siamo – unanimi nell’adorarlo e dedicargli di continuo mostre, forse è semplicemente “perché sono bravo”.