Buenos Aires, gli anni Trenta, il tango, il fumo, il vermut, gli ippodromi e i mattatoi. Andrés Rivarola non è un detective, non è eroico, non è nemmeno un uomo con un futuro: chi meglio di uno che non ha nulla da perdere per cercare la verità in un suicidio che non è tale e nella fuga della più grande promessa del fútbol sudamericano? Un affresco storico, con delitto, storia d’amore, alcol e bassifondi in “Tutto per la patria” di Martín Caparrós.
C’è una parola precisa per indicare, nel gergo del tango, quel personaggio che ha più velleità che lavoro, più illusioni che prospettive, più inerzia che reazione: quel termine è atorrante. Il nome di chi, nonostante gli sforzi, non ce l’ha fatta, e si ritrova a penare da immigrato il proprio destino: l’epiteto che circoscrive un crinale di povertà facilissimo da imboccare per masse inurbate, che campano da perdigiorno, ostaggio di crisi ogni due per tre, senza un grande futuro davanti.
Andrés Rivarola, con i suoi trent’anni, questo è: un fannullone che vive in una camera sudicia, fresco di licenziamento, che uccide i giorni al tavolo da biliardo in compagnia di altri spiantati come lui, mentre Buenos Aires gli cresce intorno.
Sono gli anni Trenta quelli in cui Martín Caparrós ambienta Tutto per la patria (Einaudi), primo volume (si suppone, dal continua… messo come excipit al corpo del romanzo) di quello che potrà essere un filone seriale dedicato al Pibe, come viene chiamato Andrés.
Specializzato in vaghezza (non è in grado di valutare causa ed effetto delle sue mosse), single ma non per scelta, affrancato ma non abbastanza per guadagnarsi da solo la minestra (tanto da sorbellarsi gran giri di tram per arrivare fin dalla madre che non gli lesina mai un piatto, nonostante il suo poco celato opportunismo), Andrés Rivarola si muove in un mondo quasi esclusivamente maschile.
Nella Gran ciudad il rapporto tra uomini a donne è di sette a uno, i ragionamenti seguono spesso una logica di coltelli, ogni forma di potere (che sia amministrare il bene pubblico, o la sicurezza, o scrivere parole su un giornale) è esercizio di ambiguità, interessi e fatalismo, più che di altruismo e di idealità. Onestà è una parola che può avere varie interpretazioni, e non di rado va a braccetto con coercizione.
In questo clima Andrés Rivarola si ritrova invischiato in un caso da cui scaturiscono pasticci e incastri a germinazione spontanea.
Scovare il volubile talento del River Plate, Berbabé Ferreyra, per salvare un amico spacciatore di droga che avanza da lui una cifra che i suoi fornitori gli reclamano a suon di minacce, diventa in breve il compito di ricondurre a Buenos Aires il giocatore – pena la frattura delle ginocchia dello stesso Rivarola da parte del potente dirigente del Club – e infine un complicato gioco di scelta della verità. Ferreira pare infatti legato segretamente a Mercedes de Olavieta, figlia di un leader in decadenza della destra ultranazionalista, disgraziatamente fatta suicidare nella propria camera: ed è il perfetto candidato al ruolo di capro espiatorio cui addossare l’omicidio.
L’affresco urbano che Caparrós costruisce intorno all’indagine dà sostanza e prospettiva a un meccanismo abbastanza elementare, fatto di categorie di tipi, più che individui, di (rari) buoni e di cattivi molto cattivi, tra i quali sta uno zoccolo piuttosto cospicuo di indecisi, o decisi a comando.
Passando da un café con leche a un gin, da un mattatoio a un ippodromo, la metropoli guarda da lontano, tra diffidenza, disinteresse e simpatia, il fascismo montante il Europa, e nel frattempo pone le basi per il proprio fascismo.
Sono gli anni dei grandi progetti urbani, dei grattacieli art déco, degli intellettuali programmatici che si sfidano in bande: gli europeisti del Florida (Ocampo, Marechal, e ovviamente Borges e Bioy Casares) contro i social-realisti di Boedo, capeggiati da Roberto Arlt.
Nomi leggendari che diventano attori nella scenografia cittadina orchestrata dall’autore (gustoso il passaggio in cui un Borges egotico e iper tradizionalista si pavoneggia con gli amici del fatto che sta continuando a riscrivere sempre la stessa novella, pubblicandola con minimi cambiamenti su riviste ogni volta diverse).
La città che non dorme mai è un intrico di vie e di ambienti, più nominati che evocati, primi tra tutti i caffè, tra i quali i personaggi di Tutto per la patria si alzano, si siedono, bevono, fumano, perdono tempo, si danno appuntamenti, si sbronzano.
La Martona, Los 36 Billares, il Tortoni, Las Cuartetas, il Richmond, il Suárez: una geografia di vermut e soda, dove passano sguardi e mezze verità, si fa opinione, si raccolgono segreti – il luogo perfetto per trovare notizie.
E infatti l’altro fondale predominante del romanzo è proprio la sede di un grande giornale, La Crítica – tipografi, redattori e rotativa annessi: perché Andrés, quasi senza volerlo, si ritrova in prova come aspirante giornalista.
Se Rivarola avesse un poco di ironia, potrebbe fare il contraltare porteño di un Marlowe; ma Rivarola (già dal cognome, non certo casuale per una penna esperta come quella di Caparrós) è un sentimentale che volentieri indulge, tra rancore e compatimento della propria sorte, a cercare materia per il suo sogno segreto: fare lo scrittore di testi per il tango.
Da che parte stia il suo gusto è chiaro già in apertura:
Checché ne dicano, ultimamente Gardel sta facendo le scarpe a quella fichetta di Corsini.
Ed è subito machismo da barrio, nonostante Rivarola paventi un tango “diverso”, finisce per ricadere nel medesimo ragionamento di Borges (di qualche pagina prima, ma anche della realtà):
Il tango si è molto guastato. Sono tanti gli interessi che lo vogliono trasformare in un budino alla crema, in uno sciroppo insapore, in oppio per il popolo. Non hai notato che i tanghi sono sempre più spesso aria fritta e lamentosa di tizi che perdono la fidanzata, malinconia, tristezza di cornuti e altre imbecillità varie?
Mancano i compadritos tanto cari al grande scrittore, ma il discorso è lo stesso: la ricerca di una presunta purezza del tango che i tempi hanno irrimediabilmente corrotto (ma: è pensabile una purezza primigenia per un linguaggio che nasce, di suo, meticcio?).
Ad ogni modo Andrés Rivarola un suo linguaggio poetico lo cerca, con alterni risultati, per tutta la sua avventura. E tutto gli è, meno che facile; forse anche perché, pur sentendosi uno “di rottura”, quando si tratta di relazionarsi con il mondo che lo circonda – in particolare con quello femminile – si lascia scappare fuori un’anima tra lo sfigato, il tradizionale e il reazionario.
Che gli sia capitato di accompagnarsi in queste pagine con Raquel Gleizer, una donna rossa di capelli, determinata, che usa i pantaloni (particolare che Rivarola non manca mai di rilevare), schietta con il proprio corpo, risolta con i propri desideri e indipendente di cervello, assomiglia quasi a una Nemesi.
È vero che innamorarsi di lei non lo preserva da patetiche rimostranze di timbro patriarcale, anche piuttosto grevi:
-(…) Sinceramente, non pensavo fossi una di quelle.
– Una di quelle chi?
– Non lo so, una di quelle, sai. Non hai paura che la gente ti veda in compagnia di uomini sempre diversi?
– Tu hai paura che ti vedano con donne diverse?
Sto quasi per dirle che non c’è pericolo, ma preferisco mantenere un certo decoro. E ovviamente le dico che non è la stessa cosa.
– Ah no? E perché no?
– Be’, scusami se te lo dico così, ma non è la stessa cosa perché io sono un uomo.
– Sì, me l’avevano detto. E questo cambia tutto?
– Cambia, ovvio che cambia. Non hai mai sentito quello che dicono i ragazzi sulle ragazze che escono con più di uno di loro? Che ci vanno a letto assieme?
Il suo diventa uno sguardo assassino. Se sapessi cosa mi conviene fare chiuderei subito la bocca; se lo sapessi, in realtà, sarei muto già da un bel po’. Ma ormai sono in caduta libera:
– Taxi libero, le chiamano, perché ci sale su chiunque. E se la vedono con troppi, una corriera, le chiamano, perché lì ci salgono tutti.
Lei si ferma di colpo. Sei un coglione, mi dice, e si riprende la borsa con uno strattone.
Forse l’amore per una donna emancipata (a patto che resista nella sua emancipazione, oltre che nell’amore) sarà, magari, una occasione per il buon Andrés Rivarola per trovare finalmente ispirazione per un tango “diverso”, così come vagheggia ogni volta che qualcuno gli dà corda sul tema.
Nell’attesa della rivoluzione, Tutto per la patria è un perfetto terreno per conoscere, o ripassare, i cliché mentali del tango iper-tradizionale, ambientato in quel preciso momento di svolta, per Buenos Aires, in cui vennero poste le basi per lunghi, futuri e contemporanei dissesti. E a partire dal quale la verità presunta dovette vedersela con quella esibita e con quella profonda.