Il 4 aprile del 1968 Martin Luther King venne ucciso a Memphis. E c’era andato per sostenere le ragioni di un gruppo di lavoratori in sciopero. Che cosa si dice e non si dice di lui, che cosa viene raccontato ai bambini a scuola? La versione edulcorata e, per i bianchi, non colpevolizzante di un combattente per i diritti civili e per l’eguaglianza sociale
Il 4 aprile è passato silenziosamente, qui negli Stati Uniti. Nessuna cerimonia ufficiale è stata organizzata per ricordare cosa è successo quel 4 aprile del 1968, quando sul terrazzo di quell’ hotel di Memphis venne ucciso Martin Luther King. Di Martin Luther King, in America, se ne parla solo a febbraio, che è il mese del suo compleanno e che è diventato il Black History Month. Nella scuola di mia figlia si fa sempre il concerto per Martin Luther King e i bambini cantano canzoni di fratellanza e di sogni finalmente realizzati, e io mi commuovo sempre. Ci casco sempre, e mi cade la lacrimuccia ogni volta. In un certo senso per i bambini della Morse Elementary school e per le altre scuole americane, il sogno di Martin Luther King in cui le figlie sarebbero andate nella stessa scuola dei bimbi bianchi e che avrebbero potuto bere dalla stessa fontanella, si è davvero avverato.
Si insegna ai bambini un Martin Luther King all’acqua di rose, senza troppi sensi di colpa, ai bimbi bianchi, evitando responsabilità, evitando di raccontare la storia: è molto meglio raccontare che il pastore protestante era contro la violenza, che ha marciato in Alabama e che ha sempre porto l’altra guancia a polizia e a quei bianchi del Ku Klux Klan che appendevano i neri agli alberi, anche ai bianchi razzisti senza il cappuccio. Così, si spiega ai bambini insegnando loro la canzoncina, si vince il razzismo. Anche a costo di morire.
Durante il Black History Month non si nomina mai Malcom X, invece, il leader scomodo e per di più musulmano che diceva che l’uomo bianco è il diavolo e che adesso basta essere ammazzati senza far niente: adesso ci armiamo anche noi e ci difendiamo. Ecco, lui ai bambini, e non solo a loro, fa molta più paura, perché il giorno che si prendono davvero alla lettera i discorsi fatti da uno dei leader più influenti del ventesimo secolo e ci si ribella alla violenza, scoppia la rivoluzione civile. Malcom X è un po’ l’elefante nella stanza, per usare un inglesismo.
Ricordo qualche anno fa, quando la mamma di una compagna di mia figlia Sofia era convinta che l’insegnante di inglese fosse incompetente. Mandò un’email ad alcune mamme (tra cui me) proponendo un circolo di lettura per i ragazzi, e chiese qualche suggerimento per dei titoli di libri adatti ai ragazzini delle medie. Io proposi The Autobiography of Malcom X, di Alex Haley: a parte il fatto che è un libro bellissimo, dicevo nella mia email, ma sicuramente propone molti spunti di riflessione e di discussione tra gli adolescenti. Venne categoricamente bocciato, con la scusa che poi i figli diventano rivoluzionari e violenti e che se perdono tempo a leggere quelle cose poi non troveranno mai un lavoro decente. Non ho mai più ricevuto email da quel gruppo di mamme, chissà poi perché. In compenso mia figlia l’ha letto due volte, e adesso sta leggendo la biografia di Assata Shakur e si sta preparando per andare a uno dei college più progressisti e importanti degli Stati Uniti. Per cui alla fine, forse, avevo ragione io. Sono soddisfazioni. Piccole, ma importanti.
È chiaro dunque il motivo per cui solo Martin Luther King, e non altri leader neri, venga celebrato: lui non faceva paura a noi bianchi, perché diceva che non ci avrebbe fatto niente. Non si spiega ai bambini il resto del messaggio di King; degli altri suoi sogni invece non parla nessuno. Quelli che ha osato discutere durante l’ultimo anno della sua vita, che si staccavano un po’ da un paradigma esclusivamente di razza, e si apriva sui problemi di classe sociale. Insomma, quando è diventato socialista, forse perché il suo discorso non fa una grinza: il problema, diceva, non è tanto il colore della pelle, ma il vergognoso divario che esiste tra i ricchi e i poveri. Come Bernie Sanders durante le ultime elezioni americane, King diceva nel 1967 che il razzismo è profondamente legato al sistema capitalista americano: “What good is having the right to sit at a lunch counter if you can’t afford to buy a hamburger?”, (“Cosa serve ottenere il diritto di sedersi allo stesso tavolo, se non ci si può permettere di comprarsi un hamburger?”) disse. Sapeva bene, Martin Luther King, di aprire una scatola di Pandora pericolosissima, una battaglia ancora più rischiosa di quella dei diritti civili. Lo disse infatti, proprio l’anno prima di essere ammazzato:
“[…] Now this means that we are treading in difficult water, because it really means that we are saying that something is wrong with capitalism. There must be a better distribution of wealth, and maybe America must move toward a democratic socialism.”
[…] “Questo significa che stiamo per calpestare un terreno difficile, perché stiamo dicendo che c’è qualcosa di sbagliato con il sistema capitalista. Ci deve essere una migliore distribuzione della ricchezza, e forse l’America deve muoversi verso un socialismo democratico “.
In più aveva osato criticare duramente il governo per la guerra in Vietnam, ricevendo a sua volta critiche da centinaia di testate, compresi il New York Times e il Washington Post, giornali storici della sinistra liberale americana e perdendo molto supporto tra la gente. Nel 1968 organizzò invece The Poor People’s Campaign, in cui parlava di ingiustizia economica e si rivolgeva non solo ai neri, ma ai poveri. E cosa ci faceva a Memphis in aprile? Era andato per tenere un discorso a un gruppo di lavoratori in sciopero, per appoggiare la loro battaglia e la richiesta di uno stipendio più equo. Ci andò malgrado le tante minacce di morte che aveva ricevuto in quei giorni, che lo spinsero a fare il famoso discorso Mountain top, in cui disse di non avere paura di morire, perché era già stato sulla cima della montagna, aveva visto lontano. Fu ammazzato il giorno dopo.
Uscire dagli schemi che fino ad allora erano stati tollerati dai bianchi e intromettersi nella politica che coinvolge tutti, bianchi e neri, ricchi e poveri fu il suo più grosso errore. E anche il più grosso segreto degli Stati Uniti, che adesso insegna ai bimbi la canzoncina dei sogni, che ci fa sentire tutti più buoni.
Immagine di copertina di Visual Artist Frank Bonilla