E riprende il suo particolare viaggio all’interno del Verismo. Questa volta partendo da un testo La cena delle beffe che ebbe, in passato, una grande popolarità teatrale e cinematografica e una scarsa fortuna nella versione operistica di Umberto Giordano
Ci sono beffe che smettono subito di essere innocenti. «Le beffe per sollazzo, gli scherni per istrazio» scriveva il Della Casa, richiamando passatempi fastidiosi ma tutto sommato innocui. Invece Sem Benelli scrisse di beffe a tinte macabre, e per teatro. Così nacque La cena delle beffe e se ne appropriò Umberto Giordano, compositore in dignitoso declino, che si lasciò alle spalle trame con rivoluzioni francesi e deportazioni in Siberia per tentare un po’ di nuovo.
Opera d’ambientazione rinascimentale, ma torbida e perversa nel suo contenuto novecentesco, La cena delle beffe uscì dal repertorio quasi fin da subito, forse per l’opulenza del libretto, dal linguaggio fuori luogo e di universale inattualità. Eppure l’opera non si perse mai del tutto e più recentemente – erano gli anni ottanta – è ritornata con la regia di Liliana Cavani, prima a Zurigo poi a Bologna. Ora è al Teatro alla Scala nella nuova produzione di fino al 7 maggio.
All’opera erano in molti a volere Benelli, dannunziano senza investitura – il Vate l’odiava –, capace di ricchissima torbidezza d’espressione, mai introspettivo, ma efficace come solo chi frequenta i pressi del cattivo gusto. Italo Montemezzi fu il primo a chiedere i diritti della Cena a Benelli, dopo il successo della pièce recitata anche da Sarah Bernhard – che non faceva Ginevra ma si travestiva da Giannetto – e dai fratelli Barrymore che trionfarono addirittura a New York col titolo The Jest, al singolare e senza supper.
Benelli però aveva ceduto i diritti a Tommaso Montefiore, che non li rivendette a Ricordi nonostante le insistenze. Il risultato fu che Montefiore lasciò il libretto nel cassetto, e non servono commenti su cosa ci sia “oltre al danno…” Come consolazione Benelli scrisse a Montemezzi un libretto medievale, L’amore dei tre re, che divenne il suo capolavoro. Quando Giordano, più di dieci anni dopo, cominciò a lavorare all’opera la vertenza era ancora aperta. Finalmente si risolse nel 1924 quando l’opera andò in scena alla Scala.
Le vicende teatrali passarono poi al cinema nel 1941. Alessandro Blasetti alla regia sconvolse il pubblico pre-otto settembre con la sua Cena delle beffe , mostrando il primo seno nudo del cinema italiano, quello di Clara Calamai, aggredita da Amedeo Nazzari che le strappa la camicetta di fronte a un manipolo di loschi figuri. Il gesto non dispiace al personaggio, Ginevra, che molla Giannetto per andare col violento rivale. Ma tra tutti questi pazzi il più inquietante è proprio la vittima, Giannetto, che si ribella con inaudita crudeltà all’energumeno che lo tormenta, come l’efferatissimo fatto di cronaca del Canaro della Magliana, storia maledetta che nel 1988 attirò gli sguardi dell’Italia intera, portando una parte un po’ anarchica dell’opinione a conclusioni persino entusiaste per l’atto di rivolta dell’assassino contro il suo persecutore.
Il rapporto tra Giannetto e il bullo rientra senza forzature nella categoria BDSM: «Più ne tremo e più mi piace il gioco» confessa Giannetto, che nel film di Blasetti sembra più a caccia di orgasmi che di vendette. Il finale del film, immerso in ombre barocche, dà forse buon esito alla sua ricerca, con quella carezza del suo Master – in gergo sadomaso – ormai definitivamente impazzito dopo il fratricidio commesso per errore.
Mario Martone, che conosceva il testo grazie alle due versioni di Carmelo Bene, riparte proprio da un’atmosfera cinematografica e tratta la musica come colonna sonora di un gangster movie nella Little Italy anni venti. Così la scenografa Margherita Palli – alla seconda esperienza non ronconiana alla Scala dopo La Vestale della Cavani – ha ricostruito un’impressionante sezione di palazzo newyorkese, con tutti gli elementi di quell’immaginario statunitense che ogni spettatore ha in mente: dal ristorante del Padrino, alla Dodge stile Intoccabili, al corridoio di Era mio padre, alla camera da letto col neon verde di Vertigo – è San Francisco, ma lo stile dell’hotel è quello giusto. Il palazzo scorre mostrando agli spettatori voyeur tutti e tre i livelli, per entrare nell’intimità dei personaggi e seguirli nei loro movimenti labirintici.
La regia di Martone è avvincente: gli scontri tra gang, la rivalità per la stessa donna e le torture tarantiniane nei sotterranei non lasciano un attimo di respiro. Come del resto la musica di Giordano, piena anch’essa di effetti drammatici quasi visivi che seguono lo spettacolo come una partitura da film. «Lo spirito drammatico ha in lui più rilievo dell’acume musicale», fu l’impercettibile complimento che scrisse dopo l’Andrea Chénier Eduard Hanslick, intransigente musicologo brahmsiano a cui proprio il verismo non poteva andare giù.
Anche se più che di verismo per quest’opera è meglio parlare di Grand Guignol: per lo splatter, allo stesso tempo disgustoso e allettante, l’assenza di psicologia e lo sguardo spudorato puntato sulla bestialità dei personaggi. L’amore manca, il sesso no; non c’è mai accordo, solo intrigo; e i tribunali sono camere di tortura. Perfetta in questo senso l’idea di Martone della femme de chambre Cinzia che si masturba a letto, eccitata dagli scambi di Giannetto e Ginevra nella stanza accanto. Un po’ forzato invece il colpo di scena finale della resa dei conti al femminile, con la dolce Lisabetta che fa strage insieme a un gruppo di amazzoni armate di mitra, trovata suggerita forse dall’invocazione finale del libretto: «Lisabetta, piccina mia…vendetta!».
La cena delle beffe è un’opera che dura quanto un film ma che ogni cantante vive come una maratona: per i passaggi continui dal declamato all’arioso e per la serie sfiancante di esplosioni sovracute. Per Nicola Alaimo è una prova importante, nella parte baritonale di Neri Chiaramantesi, difficile per la violenza da mantenere anche quando da carnefice diventa vittima. Morbidissimo il fraseggio di Jessica Nuccio, Lisabetta, unica luce nella prigione di Neri. Meno convincenti i protagonisti: Marco Berti, discreta presenza ma dall’intonazione incerta, e Kristin Lewis, corretta ma poco espressiva. Da notare invece Chiara Isotton, sensuale e impeccabile nella parte di Cintia, dama di compagnia di Ginevra alla ricerca del parossismo.
La musica di Giordano è tesa ma generica, con motivi energici, viscerali e scattosi che però non si adattano mai davvero ai personaggi: così non concedono evoluzioni né sentimenti ulteriori rispetto a quanto detto negli endecasillabi di Benelli. La direzione di Carlo Rizzi segue con determinazione la densità della tessitura orchestrale e cura con la giusta dose di retorica queste melodie, belle, ma inutilizzabili per qualsiasi caratterizzazione.