Una produzione Teatro di Napoli tra Fabrizio Ramondino, Thomas Bernhard e ovviamente Mario Martone
Il massimo pianista Arturo Benedetti Michelangeli sosteneva che al pari delle note e delle melodie da eseguire sulla tastiera sono importanti le pause e i silenzi indispensabili per dare spessore e senso alla musica. A
ssistendo alla messa in scena di Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo si percepisce l’esatto significato di tale affermazione translitterata per il palcoscenico teatrale. Uno spettacolo concepito, vissuto e cesellato da Mario Martone, quasi come un’autoanalisi del suo fare a 360° teatro, cinema e opera lirica. Va infatti considerato che in qualche modo è lui alla radice dello scrivere per il teatro di Fabrizia Ramondino, grande autrice napoletana, sua conterranea scomparsa una quindicina di anni fa, autrice di romanzi fondamentali della nostra letteratura come Althenopis e L’isola riflessa. Insieme avevano firmato la sceneggiatura per il film Morte di un matematico napoletano, così a seguito di quell’esperienza la Ramondino fu spinta a cimentarsi con la drammaturgia e a sperimentarsi nella scrittura di pagine destinate all’interpretazione di attori per un pubblico live. Alla fine ha lasciato un corpus di svariati testi rimasti inediti e che ora rientrano nell’omaggio che Roberto Andò, come direttore del Teatro Nazionale di Napoli, si sta impegnando a tributarle nella sua città natale.
Adesso, nel portare in scena quelle pagine, il regista si è avvalso anche della preziosa collaborazione di Ippolita di Majo che ha confrontato, assemblato, tagliato e coordinato le due versioni esistenti di Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo, la prima consegnata anni fa nelle mani di Martone e una più recente affidata a un altro importante attore/regista partenopeo Arturo Cirillo (anche questa inedita).
Ne è risultato un copione più agile, più fluido e meglio strutturato, ricco di fascinazioni ma anche di paradossali bizzarrie, a disposizione del protagonista Lino Musella per esprimere le considerazioni esistenziali del suo personaggio: il compositore. Nel suo flusso di coscienza, che costituisce la struttura della messa in scena, emergono e partecipano la madre (Iaia Forte), la madre della figlia (Tania Garribba), il factotum (Totò Onnis), la figlia (India Santella) e il ragazzo (Matteo De Luca).
Memorie, esperienze, considerazioni si susseguono e si sovrappongono, senza mai un’autentica azione scenica, lungo una linea già implicita nel titolo, esplicitamente ripartito in tre nuclei potenzialmente narrativi: le donne, gli strumenti musicali, il ragazzo (così come in tre atti venivano cadenzati gli spettacoli fino agli anni ’50).
Tutto si svolge un un’unica stanza schermata da un morbido sipario rosso (impossibile non ricordare quello analogo e autobiografico che svelava gli episodi e i personaggi del lontano Rasoi), sipario rosso che come un lenzuolo (o forse è un sudario?) copre il compositore in canotta e boxer, invisibile ma già presente all’ingresso in sala degli spettatori. Quella stanza (o forse è solo il palco del teatro? o la scena della vita?) si rivela già praticamente svuotata, con solo pochi ed essenziali elementi scenografici accuratamente selezionati dal regista, barocchi ed evocativi (il dipinto di una marina napoletana, un imponente lampadario a gocce) e anche questi via via vengono portati via dal factotum (o forse è davvero un usuraio dell’esistere?) fino a che il musicista resta solo con il pianoforte a scegliere le note da eseguire per la sua partitura. Assenze che rimandano ai pieni, carenza di azione che evoca vivacità del disordine.
Con linee sottintese e rimandi tutti da ricercare e rintracciare, la citazione nel corso dei dialoghi del quadro di Munch La morte e la fanciulla che è anche titolo di un celebre quartetto di Schubert al centro di un altro famoso spettacolo teatrale e per di più legato a un musicista caro a Thomas Bernhard, autore-zenith teatrale della Ramondino (in La forza dell’abitudine Bernhard faceva di un brano di Schubert il tormentone al centro della trama).
Alla fine la staticità, il non succedere nulla di eclatante, risulta solo un’apparenza ingannevole (tanto per dirla ancora una volta con Bernhard), in contrasto con un sottinteso stimolo creativo che è tale non solo in quanto obiettivo dell’autrice, ma come stimolo esperienziale proposto allo spettatore. Quel compositore nel vuoto si rivela essere non solo specchio dell’uomo contemporaneo di Beckett, ma la stessa drammaturga Ramondino, l’artista vivo Martone, lo spettatore in sala come la stracitata casalinga di Voghera (anche quando inconsapevole).
Gli interpreti si dimostrano tutti eccellenti nel reggere fino in fondo un compito davvero gravoso, nel trasformare in gradevole e vivace un lavoro che i maligni potrebbero tacciare di intellettualismo. Primo fra tutti un Lino Musella che ha trovato mirabili tonalità tra il tagliente e il disincantato non prive di una deliziosa ironia. Veramente uno dei massimi interpreti della scena contemporanea! E accanto a lui non si può non citare almeno Iaia Forte, forse unica in grado di proporsi sulla scena contemporaneamente possente e impalpabile.
Foto di copertina © Mario Spada